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di Bepi Martellotta

Gazzetta del Mezzogiorno, 8 febbraio 2024

L’Unione delle Camere penali italiane ha deciso di fermarsi sino al 9 febbraio per denunciare le “vergognose e ingiuste condizioni di detenzione” italiane. Il disegno di legge Nordio è tornato al Senato e tutti, fuori dai “Palazzi”, si aspettano che si occupi dei problemi veri e reali della Giustizia, della quale ormai da tempo si dice faccia acqua da tutte le parti. E invece, questa macro-riforma che sembra voler risolvere e aggiustare, qui e là, altre micro-riforme che si sono succedute negli anni, di tutto si occupa tranne che della madre dei problemi della Giustizia, i suoi tempi.

Nei giorni scorsi a Ponte Galeria, in periferia di Roma, si è impiccato con un lenzuolo un ragazzo 21enne della Guinea. Era detenuto in un Cpr, i cosiddetti Centri per il rimpatrio, quelli che dovrebbero consentirti di essere rimpatriato e dove, invece, se ti va bene e sopravvivi, ci resti anni. Quel ragazzo, con un mozzicone di sigaretta, ha scritto cosa voleva prima di uccidersi: tornare a casa, almeno da morto, ed essere seppellito lì. Una storia come tante, anzi verrebbe da dire come troppe, visto che nei primi due mesi del 2024 ci sono già stati 15 suicidi negli istituti penitenziari. E i Cpr, almeno sulla carta, non dovrebbero essere istituti di pena, ma centri nei quali vieni trattenuto in quanto immigrato irregolare finché non viene accertata la tua condizione e vieni espulso.

Ecco, i tempi della Giustizia. Per accertare la fedina penale di un immigrato, arrivato qui su un barchino dopo essere sopravvissuto all’ira di Dio tra deserti e mari, ci vogliono mesi, talvolta anni. Anni nei quali, benefattore o delinquente, onesto o criminale, devi stare là perché privo di un permesso di soggiorno, in un “Centro” con le sbarre. Stare lì e aspettare, senza nulla sapere della tua famiglia lontana e senza nulla sapere del tuo destino. Forse non sapeva nulla della sua famiglia - finita sotto le bombe di Putin - anche un altro detenuto, ucraino, suicidatosi nel carcere di Montorio pochi giorni prima del tragico evento di Ponte Galeria. Un trend che sarà difficile fermare.

Ma no, il ddl Nordio non si occupa di questo. Si occupa di come prevedere restrizioni sulle intercettazioni sino alla celebrazione del processo, in modo da tutelare sia gli indagati che i non indagati dai “processi mediatici” orditi dalla stampa. E quelli sì che sono un problema! Si occupa di come rafforzare le restrizioni previste dalla riforma Cartabia nell’affidare ai procuratori delle Corti d’Appello l’ingrato compito di “controllare” le informazioni che devono uscire dalle Procure sulle inchieste in corso, in modo da evitare di dare “in pasto alla stampa” informazioni che possano condizionare l’attività inquirente. E questi sì che sono problemi in un Paese dove, se non finisci “in pasto alla stampa” - come accaduto alla maestra Ilaria Salis arrestata a Budapest - rischi di passarci tutta la vita in un carcere, magari da innocente, lontano da telecamere e “schiamazzi” giornalistici, finché non ti togli la vita.

Si occupa, il ddl, dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, così i dirigenti comunali la smetteranno di spaventarsi ogni volta che dovranno assumersi la responsabilità di firmare un atto, ma parallelamente i colletti bianchi della criminalità organizzata cominceranno a fregarsi le mani (altro che impiccarsi con un lenzuolo dietro le sbarre di un Paese lontano...)

Chissà quando il Guardasigilli vorrà, ad esempio, occuparsi del fatto che le carceri italiane possono contenere al massimo 47mila detenuti e ce ne sono 65mila; che i processi durano troppo e che la preziosa attività dei magistrati nell’accertamento dei fatti, spesso, dura secoli; che un terzo dell’intera popolazione carceraria - circa 15mila detenuti - è dietro le sbarre per reati minori ed espiazione breve di pena, ma fino al terzo grado di giudizio in carcere ci passa la vita. Che il carcere in Italia, così come i “Centri per il rimpatrio”, non ha funzioni rieducative, perché se vivi come un animale per anni è difficile che possa “pentirti” e reintegrarti nella società.

Ammesso che da lì riesci ad uscirne vivo o, miracolosamente, a tornare nel Paese da cui sei fuggito. Men che meno aspettarti, se soffri di qualche disturbo di salute, di avere cure adeguate dietro le sbarre, visto che l’assistenza del cosiddetto “servizio sanitario universale” è affidata alle Regioni, come noto alle prese con i conti dei bilanci per garantire assistenza (e non sempre ci riescono) nelle corsie ospedaliere.

L’Unione delle Camere penali italiane ha deciso - a partire da oggi - di fermarsi sino al 9 febbraio per denunciare le “vergognose e ingiuste condizioni di detenzione” che ci sono in Italia. Difficile che questo governo - come altri che lo hanno preceduto, a prescindere dal colore politico - presti ascolto agli operatori del settore, come inascoltate sono rimaste sinora le grida d’allarme dei sindacati della polizia penitenziaria, i cui addetti sono costretti ad una vita d’inferno, seppur nella condizione di carcerieri, insieme ai detenuti.

A dirla tutta, è sufficiente rivedersi un capolavoro del cinema, Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy - correva l’anno 1971 - per capire che il problema del “giusto processo” sono sessant’anni che l’Italia non riesce a risolverlo, pur contando nel frattempo almeno 15 governi e 22 tentativi di riforma. Anche a questo giro, a quanto pare, l’obiettivo è tutto da un’altra parte: ridurre l’informazione, spegnere i fari dei media, evitare che si parli - di ciò che accade dietro le sbarre o di ciò che accade prima del processo - sino all’udienza preliminare. E chissene se, poi, le udienze durano dieci anni e in carcere o nei Cpr ci finiscono a vita - insieme ai delinquenti che non vedono l’ora di tornare a delinquere - i poveri cristi che vogliono solo farla finita.