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di Gennaro Grimolizzi

Il Dubbio, 5 febbraio 2024

In Italia serve anche una riforma architettonica delle carceri “nell’ottica della riduzione del danno”. L’architetto Cesare Burdese lo sostiene da sempre. Il professionista torinese ha partecipato in passato ai lavori delle commissioni ministeriali che si sono occupate di architettura penitenziaria. “I nostri Istituti penitenziari sono architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena”.

Architetto Burdese, le questioni legate all’edilizia penitenziaria sono ancora tutte aperte. Come si interviene?

Prima di rispondere, è doverosa una premessa per fare conoscere il senso del mio lavoro nel settore dell’architettura penitenziaria. Non a caso parlo di architettura penitenziaria e non edilizia penitenziaria. L’architettura risponde ai bisogni fisiologici, psicologici e relazionali dell’individuo e alle istanze evolutive della società; l’edilizia, invece, si rifà a logiche costruttive e funzionali. In carcere l’architettura mira a contribuire al benessere materiale e morale dell’individuo ristretto e di quanti a vario titolo lo utilizzano. È un mezzo per rendere la pena conforme al senso di umanità e alla funzione rieducativa della pena costituzionale. Ho sperimentato per la prima volta la “miseria” architettonica del nostro carcere, circa quarant’anni fa, visitando nella stessa giornata a Torino il carcere ottocentesco “Le Nuove” ed il carcere “Lorusso e Cutugno”, allora da poco realizzato. Subito pensai che da studente di architettura non avevo mai studiato il carcere. Tutti i 186 istituti in funzione, costruiti a partire da epoche pre-ottocentesche e sino ai giorni nostri, si presentano in forte stato di degrado e sovraffollati. Le manutenzioni ordinarie delle strutture da sempre sono una nota dolente. A prescindere dall’epoca di costruzione, i nostri istituti sono architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena. Con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 sono stati modificati i codici, ma non gli edifici. Le azioni condotte, di volta in volta per adeguare le strutture alla norma penitenziaria del momento e per efficientarle dal punto di vista edilizio, non hanno modificato una realtà architettonica palesemente incoerente. I nostri edifici carcerari si presentano disumani e scarsamente funzionali per la risocializzazione in violazione del dettato costituzionale.

Il carcere non è solo il luogo della reclusione. Non vivono soltanto i detenuti, ma lavorano gli agenti della polizia penitenziaria e altri operatori. Eppure, si continua a pensare che debba essere solo uno spazio in cui relegare nell’oblio chi ha sbagliato. Cosa ne pensa?

La norma penitenziaria considera il carcere come una risorsa per l’individuo condannato e per la società intera. La sua missione è quella di rendere il tempo della pena funzionale al ritorno alla libertà in positivo della persona. La realtà dei fatti ci dice altro, però, visto l’alto tasso di recidiva, intorno al 70-80%, che si registra tra quanti hanno scontato una pena. Questo tasso si riduce a circa un 30%, se durante la pena la persona condannata lavora e continua a mantenere rapporti affettivi con i propri congiunti e relazioni positive con l’ambiente esterno. Lavoro, affettività, rapporti con il mondo libero sono i pilastri a fondamento del trattamento finalizzato alla cosiddetta risocializzazione. Il trattamento richiede adeguate dotazioni spaziali all’interno degli istituti, che, a distanza di oltre quarant’anni, ancora scarseggiano. Penso che, a fronte di un ridimensionamento significativo della popolazione detenuta, si dovrebbero investire risorse per completare la riforma avviata nel 1975. La cosa, a quanto pare, sembra irrealizzabile perché complicata, foriera di conflittualità e controproducente sul piano del consenso elettorale.

Per le carceri, dunque, servono soldi ma anche buone idee?

Le infrastrutture penitenziarie sono molto costose nella costruzione e nella gestione. La costruzione di un nuovo carcere di medie dimensioni, con 450 posti, costa intorno ai 100mila euro a posto. Per costruirlo e metterlo in funzione, da noi non bastano quindici anni. A cavallo degli anni 60 e 70 del secolo scorso si è avuta una prima stagione edificatoria per costruire nuove carceri e rinnovare quelle esistenti. Seguirono ulteriori stagioni edificatorie per incrementare il parco edilizio, estese sino agli anni 90 e primi anni Duemila. Nel 2010 fu varato il piano carceri per la creazione di 21mila posti che non raggiunse gli obiettivi prefissati. La mancanza di risorse economiche, nell’arco degli ultimi decenni, ha penalizzato la manutenzione ordinaria degli istituti. Solo ultimamente si è provveduto in maniera congrua. Ma sul fronte delle nuove edificazioni siamo al palo. Faccio a tal riguardo alcuni esempi.

Il carcere di San Vito al Tagliamento e il nuovo carcere di Bolzano continuano a non vedere la luce, nonostante l’iter burocratico per la loro realizzazione sia stato avviato da oltre un decennio. Logiche legate a questioni di conflittualità economica tra le parti in campo e leggi sulle opere pubbliche farraginose hanno impedito l’avvio delle opere, nonostante molto denaro pubblico sia già stato speso. Analoga sorte è toccata al nuovo carcere di Nola, pensato per una capienza di 1200 posti e progettato nel 2017, del quale, però, al momento, non si hanno più notizie. Per quanto riguarda le idee, si tratta di considerare il carcere come l’ultima soluzione e di superarlo nel limite del possibile, realizzando sul territorio strutture alternative per ospitare e dare lavoro a quanti possono beneficiare dell’esecuzione penale esterna.

In Italia manca una cultura dell’edilizia carceraria?

Come già ho accennato, quando parliamo di carcere costruito, dobbiamo distinguere tra edilizia e architettura. L’edilizia ha orizzonti assai limitati, mentre l’architettura è portatrice di valori e contributi superiori, che, in maniera olistica, investono l’esistenza dell’individuo che utilizza l’edifico e dell’intera comunità sociale. La domanda che lei mi pone mi appassiona perché la crescita di un fronte culturale architettonico, finalizzato a far progredire e dare coerenza ai luoghi della pena, è un tema che promuovo da anni. Già in passato, l’architetto Sergio Lenci sosteneva la necessità di portare nelle facoltà di Architettura lo studio del carcere, dove ancora oggi, salvo rarissime eccezioni, è scarsamente considerato. Per questo mi sono prodigato, sin dalla fine degli anni 80 dello scorso secolo, a sostenere la didattica universitaria sul tema del carcere. In Italia quanti a vario titolo si occupano di architettura trascurano l’edificio carcerario o non lo conoscono a fondo. Nelle facoltà di architettura il carcere è assente, i progettisti che se ne occupano sono per lo più inconsapevoli di quello che è l’universo carcerario e il mondo dell’editoria non si occupa di architettura penitenziaria. Solo di recente, a livello istituzionale, si è incominciato a parlare di architettura penitenziaria.

Non solo carceri per gli adulti. Anche le strutture penitenziarie per i minori richiedono di essere ripensate?

Questo è un argomento che mi sta particolarmente a cuore e sul quale mi sono più volte cimentato a livello professionale. Gli istituti minorili in funzione, destinati ad accogliere minorenni e giovani adulti, sono 17. Anche in questo caso gli edifici provengono da un passato più o meno remoto e in alcuni casi sono carceri recenti, originariamente concepiti ed utilizzati per gli adulti. Queste strutture presentano i tratti del carcere in generale, contenitivi e tendenzialmente afflittivi e rischiano di essere sempre di più conformate al carcere degli adulti. All’estero le cose vanno diversamente: per le carceri minorili e degli adulti le pratiche progettuali rispettano i valori dell’architettura. Il carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino è in sofferenza a causa del sovraffollamento, con quasi cinquanta detenuti. Nel 2001 fui incaricato del progetto della sua riorganizzazione spaziale. La proposta che ne scaturì proiettava quell’edificio detentivo nella dimensione di una sua assoluta coerenza con le finalità della pena costituzionale. Venivano anticipati i fondamenti dell’ordinamento penitenziario minorile varato successivamente nel 2018. Purtroppo il progetto fu accantonato e dimenticato. Oggi, grazie ai fondi nazionali complementari al Pnrr, sono previste opere di efficientamento energetico, di consolidamento strutturale, di adeguamento alla nuova normativa penitenziaria minorile. Le opere saranno realizzate sulla base di un progetto la cui paternità concettuale appartiene all’ufficio tecnico del Dipartimento della Giustizia minorile. Devo amaramente sottolineare come quel progetto rimanga ai margini dei valori dell’architettura, che certifica l’importanza dell’ambiente rispetto all’uomo.