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di Marco Grieco

L’Espresso, 17 giugno 2023

Nelle carceri italiane, così anomale da essere definite col superlativo di un superlativo come “sovraffollate”, le persone transgender vivono una doppia prigione. La loro reclusione diventa, cioè, l’espiazione di una colpa verso una società che ancora oggi non tutela i loro diritti, specialmente in carcere, dove Il codice culturale è binario e fortemente sessualizzato.

Oltre le sbarre, la mancanza di tutela esercita nelle persone transgender detenute vere e proprie forme di segregazione, non solo fisica. In Italia gli istituti che accolgono persone transgender sono dodici, di cui otto al nord, due al centro, due al sud. Secondo le ultime stime dell’associazione Antigone, si contavano 63 trans negli istituti penitenziari italiani, tutte donne per l’82 per cento non italiane, recluse per reati legati allo spaccio di stupefacenti o alla prostituzione. Numeri che, però, fluttuano: soltanto la sezione di Rebibbia Cinotti conta 20 recluse dalle 15 di inizio anno. Cittadinanza italiana o meno, molte ammettono di aver subito qualche forma di ostracismo, come emerso dalle numerose testimonianze raccolte da associazioni come Antigone o attraverso i centri di ascolto come Gay Help Line, o da amici e conoscenti.

Alessia Nobile, assistente sociale e attivista transgender, negli anni è divenuta punto di riferimento per le detenute trans pugliesi: “Anni fa una mia amica, reclusa nel carcere di Poggioreale di Napoli, mi scrisse disperata una lettera: mi chiedeva semplicemente dei trucchi, per continuare a sentirsi donna. Percepiva che stava regredendo, non voleva ritornare uomo”, spiega. Oggi Nobile, che ha in comune un passato di abbandono e discriminazione, vuole infondere loro una speranza nel luogo dove la speranza è la prima a morire.

Per il loro passato da sex worker, infatti, tante detenute sono collocate in sezioni promiscue insieme ai sex offenders, cioè i detenuti reclusi per reati di natura sessuale, e questo crea in loro un costante senso di paura. A ciò si aggiunge lo stigma. Fino a poco tempo fa era consuetudine recludere le persone in transizione su base strettamente anagrafica, senza considerare cioè l’identità di genere da esse percepita.

Ancora oggi sotto il profilo amministrativo si utilizza una terminologia confusa per definire le persone transgender: aspetto problematico specialmente per coloro che, essendo in transizione, presentano un’identità anagrafica difforme dal proprio aspetto esteriore. Occorre ricordare che la tutela delle persone transgender non solo rispecchia le linee guida indicate dall’American Psychological Association nel 2015, ma è garantita dal diritto: la sentenza della Corte Costituzionale 221/2015 ha sganciato il diritto all’identità di genere di una persona dall’imposizione di un trattamento ormonale o chirurgico, perché viola gli artt. 3 e 32 della nostra Costituzione, peraltro in sintonia con quanto riconosce la Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 8).

Eppure, a cinque anni dal pronunciamento, nelle maglie imbrigliate delle carceri sovraffollate i nodi restano. Lo dimostra l’ordinanza n. 682 del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che nel 2020 ha accettato le richieste di una detenuta presso la Casa Circondariale di Sollicciano a cui era stato negato l’accesso al reparto femminile, malgrado l’adeguamento dei suoi dati anagrafici: “Oggi a Firenze Sollicciano le detenute trans sono allocate nella sezione femminile, fanno attività scolastiche e ricreative. Ma è stata una conquista difficile”, spiega l’avvocato Elia De Caro, difensore civico dell’associazione Antigone. Questo e altri casi portati in tribunale sono le spie di un sistema carcerario in affanno, dove a pagarne le conseguenze sono “le segregate due volte”, come spiega Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento Identità Trans (Mit) e figura di spicco della comunità transgender italiana, con una militanza di 50 anni: “Quando entri in carcere varchi la porta dell’inferno, è una sensazione che non riesci più a toglierti di dosso, fatta di impotenza e disperazione”.

Nel 1981 a Porpora bastò un accenno di trucco per essere arrestata appena fuori dall’università e reclusa quattro mesi nel carcere romano di Regina Coeli. Sullo stipite della sua cella trovò incisa la parola travestito: un’epigrafe della vergogna, oggi non più visibile, ma incarnata nei corpi che ancora subiscono un linguaggio sessualizzante o persino le angherie di chi lavora negli istituti di pena, come spesso denuncia chi si rivolge a Gay Help Line: “Negli anni Ottanta con il Mit abbiamo seguito diverse donne trans arrestate: erano in media quattro a settimana e potevano restare in carcere anche tre mesi. Da allora, alcune cose sono cambiate, ma il volto della disperazione quando vai a trovarle è sempre lo stesso” spiega Marcasciano.

Alcune di loro non ce la fanno a vivere in un sistema che le discrimina e non accetta ciò per cui hanno lottato ingaggiando il loro stesso corpo. Nel padiglione Roma del carcere napoletano di Poggioreale, per esempio, è ancora vivido il ricordo del 2010, quando in due settimane tre di loro si tolsero la vita. L’ultima, Francesca, aveva solo 34 anni, ma preferì porre fine alle sue sofferenze inalando il gas da una bomboletta in dotazione nella cella. Nella reclusione, le donne transgender vedono sul loro corpo la parabola discendente di un percorso di liberazione personale, pagato con la l’ostracismo e il totale abbandono: “Quando Francesca si prostituiva, si sentiva nell’indifferenza di tutti. In fondo, lei sognava solo una vita migliore per sé e per quelle come lei”, dice Alessia Nobile, la voce incrinata dall’emozione.

Malgrado negli anni siano state stilate regole europee che impongono alle autorità penitenziarie la tutela della salute dei detenuti, la realtà è superiore alle soft law e alle convenzioni internazionali. Ci sono delle mancanze oggettive, come spiega De Caro: “Nel nostro sistema penitenziario mancano professionisti della salute mentale, ma occorre anche formare il personale, inserire mediatori culturali. Quando nessuna detenuta trans riesce a ottenere un permesso per uscire dal carcere per studio o lavoro, qualche domanda occorre farsela”.

Da tempo il Mit si occupa del reinserimento delle detenute nella società, come Mary: “Ha da poco acceso un mutuo e lavora”, dice commossa Marcasciano. Ma l’indifferenza dello Stato verso la salute mentale delle persone transgender detenute è la punta d’iceberg di un problema che investe una situazione più complessa, quella che fa dei luoghi deputati al reintegro nella società zone di trincea per chi vive già sulla sua pelle il coraggio di stare in frontiera.

Denuncia De Caro: “In alcuni istituti, la terapia ormonale è ristretta alla somministrazione di un solo ormone” che - le fa eco Marcasciano - “viene prescritto come se fosse aspirina, senza un piano terapeutico individuale. Noi come Mit collaboriamo con il carcere di Reggio Emilia, da cui le detenute trans - oggi sono in dieci - escono per essere seguite da uno specialista endocrinologo”. Fa scuola l’ordinanza emessa il 13 luglio 2011 dal Tribunale di Spoleto, che ha riconosciuto il diritto della persona detenuta a proseguire il proprio percorso ormonale, anche in assenza di una normativa regionale.

È un diritto alla salute, che andrebbe garantito non solo dalle regioni erogatrici dei servizi, ma dallo Stato, puntualizza De Caro: “Noi non possiamo chiedere all’amministrazione penitenziaria quello che va chiesto al Ministero della Salute e agli altri Ministeri competenti”. È la legge uguale per tutti, che campeggia sulla testa di un giudice, ma che a volte cade con una sentenza. Diventa un verdetto di vita e di morte per una persona transgender, a cui attende dietro le sbarre un buco nero, che strappa la vita e pure il nome.