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di Alberto Gentili

huffingtonpost.it, 24 novembre 2023

Il governo lo chiama “contributo di solidarietà obbligatorio”, toglie il 5% sul compenso dei detenuti che avviano un percorso di reinserimento. Tutto per riparare a un danno commesso dal governo stesso, con la manovra, svuotando il Fondo per le vittime di usura, estorsione, mafia. A dispetto di ciò che hanno detto e promesso per una vita, le tasse sembrano essere la vera passione di Giorgia Meloni & C. Dopo l’aumento dell’Iva su pannolini e Tampax e delle accise per le sigarette, dopo l’incremento della cedolare secca per gli affitti brevi e i tagli alle pensioni, il governo ha deciso di spremere anche i carcerati. Per l’esattezza, introduce un “contributo di solidarietà” del 5% a carico dei detenuti che lavorano. Nessun problema, invece, per quelli che trascorrono la giornata in cella a “oziare” e “a girarsi i pollici”, come recitano gli slogan cari a Matteo Salvini e ai Fratelli d’Italia.

La stretta fiscale sui detenuti lavoratori è contenuta nella bozza (il testo non è ancora pronto) del disegno di legge sulla sicurezza varato giovedì scorso. Quello che concede la pistola privata ai poliziotti fuori servizio (si stimano altre 300mila armi in circolazione), apre le porte della galera alle donne in gravidanza, vara il giro di vite contro le occupazioni abusive. Insomma, più reati, più pene, più carcere, più pistole, seguendo il copione securitario che ha portato Meloni a battezzare ben tre decreti-sicurezza in poco più di un anno. Un vero record. Ricordate? C’è stato il provvedimento d’urgenza contro i rave party, spacciati nel dicembre scorso come un’emergenza nazionale. Poi è arrivato il decreto Cutro che lanciò la caccia agli scafisti in “tutto il globo terracqueo” e la stretta sui migranti nei centri accoglienza e rimpatrio. E, sempre sull’onda emotiva che il populismo penale ama cavalcare soffiando sulla paura dei cittadini, c’è stato il decreto Caivano, con il carcere per le famiglie che non mandano i figli a scuola e per i piccoli spacciatori. Meglio, molto meglio, di quanto seppe fare Salvini quando stava al Viminale. Tant’è che il leghista, raccontano, soffre di un’invidia feroce. Vorrebbe essere lui, anche per ragioni elettorali, il direttore d’orchestra del vorticoso tintinnar di manette.

Ma ecco il testo della norma che aumenta le tasse ai carcerati. Titolo: “Contributi al fondo per l’indennizzo in favore delle vittime dei reati di tipo mafioso”. Articolo: 30. “È disposto un contributo di solidarietà obbligatorio nella misura del 5% calcolato sulla retribuzione globale di fatto a carico di coloro che prestano attività lavorativa dentro e all’esterno del carcere in favore del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti di cui all’art. 14 della legge del 7 luglio 2016, n. 122”. Qualcuno dirà: c’è un barlume di logica nel fatto che i carcerati vadano in soccorso di chi è vittima di usura e mafia. Qualcun altro osserverà: finalmente i cattivi sono costretti ad aiutare i buoni. In realtà il governo, roba da Robin Hood al contrario, ha deciso di tassare i detenuti, di togliere i soldi a chi non ce li ha, per riparare a un danno commesso con l’ultima legge di bilancio, quella ancora da approvare: il taglio al fondo di rotazione, appunto, destinato alle vittime di usura, estorsione, mafia.

Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd questa mattina a Montecitorio ha messo a verbale parlando con l’HuffPost: “È aberrante la proposta del governo secondo cui le risorse negate in legge di bilancio per il fondo per le vittime dell’usura e di mafia dovrebbero essere trovate con un prelievo forzato sugli stipendi dei detenuti che lavorano dentro e fuori dal carcere. In pratica il governo si disimpegna in modo vergognoso sul finanziamento di un fondo che ha un valore sociale ed etico, lasciando che sia finanziato dal lavoro dei detenuti”. In estrema sintesi: “Roba da lavori forzati”.

Ma c’è di più. La stretta fiscale sui carcerati contraddice di fatto la Costituzione. Perché, come dice Federico Gianassi, capogruppo dem in commissione Giustizia, “sulla Carta è scritto che la pena ha principalmente il fine rieducativo e del reinserimento sociale”. E lavorare, come dimostrano le statistiche, offre ai detenuti la possibilità di trovare un’occupazione una volta usciti di prigione riducendo il rischio di tornare dietro le sbarre. Ma la Destra, d’istinto, predilige punire piuttosto che redimere. E disincentiva con il “contributo di solidarietà” un fattore di redenzione che negli ultimi anni è entrato in crisi: nel 2016 erano 16mila i detenuti che lavoravano, ora sono 11.692 a fronte di un totale di 56.127 carcerati.

Se n’è accorto anche il governo. Tant’è che nella bozza dello stesso disegno di legge, c’è un capitolo dedicato a “favorire l’attività lavorativa dei detenuti”. Come? Allargando il numero delle imprese presso le quali può lavorare chi sconta una pena. Ma, vista l’aria che tira, più che un segnale di attenzione al tema del reinserimento, la mossa appare dettata dalla speranza di ampliare la platea da tassare. Più carcerati lavorano, più saranno i fondi per le vittime di mafia e usura. Astuta Meloni. Chissà cosa ne pensa il garantista Carlo Nordio, in arte Guardasigilli.