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di Gerardo Villanacci

Corriere della Sera, 18 luglio 2023

È la strada che consentirebbe alla politica di recuperare prestigio e alla magistratura, la cui crisi di legittimazione ne annebbia la funzione giurisdizionale, di ritornare ad essere l’elemento essenziale della democrazia.

Con il disegno di legge di modifica di alcune disposizioni del Codice penale, di Procedura penale e dell’Ordinamento giudiziario recentemente approvato dal Consiglio dei ministri, si propone l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, la riformulazione di quello di traffico di influenze illecite, la riduzione delle possibilità di appellare da parte del pubblico ministero, la limitazione per i giornali di pubblicare le intercettazioni, l’istituzione di un Collegio di tre giudici per decidere sull’applicazione della custodia cautelare in carcere, l’obbligo di descrivere sommariamente il fatto nelle informazioni di garanzia e, infine, per evitare che delle sentenze possano essere travolte da nullità, viene stabilito che il limite di 65 anni per i giudici popolari è valido soltanto ai fini della nomina, cosicché nulla rileva se detto requisito dovesse venir meno durante il periodo di mandato.

Senza dubbio si tratta di tematiche importanti a partire dalla cancellazione del reato di abuso d’ufficio, dichiaratamente voluto per limitare l’effetto della “paura della firma” da parte dei pubblici funzionari che, come è ormai noto, ha notevolmente rallentato l’attività decisionale, anche se la scelta dell’abolizione dell’illecito non può costituire un indebolimento delle rigorose verifiche del rispetto delle procedure.

Tuttavia, trattandosi di un progetto di legge al quale nel corso del dibattito che ne seguirà potranno essere apportate delle modifiche, sorprende l’eco che lo stesso ha avuto, salvo non si voglia ritenere, con un pizzico di malizia, che le marcate espressioni di dissenso abbiano una funzione preventiva di contrasto all’altro segmento di riforma più temuto, già annunciato dal ministro della Giustizia, ovvero la separazione delle carriere tra pm e giudici. Un intervento ineludibile per chi lo ritiene necessario alla effettiva modernizzazione dell’Ordinamento giudiziario e al conseguimento di maggiori garanzie per il cittadino. Un vero e proprio vulnus per l’indipendenza e l’imparzialità del pm, secondo gli oppositori.

Una contrapposizione anacronisticamente declinata come “scontro tra magistratura e politica” benché dalle dichiarazioni rese da un importante ex magistrato, già presidente dell’Anm, sia emerso che piuttosto che “scontri” tra giudici e politici, semmai vi erano degli accordi per le nomine in Uffici giudiziari strategici. Ma venendo al punto della questione, per non alimentare il contrasto tra poteri dello Stato, la sola possibilità è quella dell’autocritica da parte degli interessati. Una strada che consentirebbe alla politica di recuperare prestigio e alla magistratura, la cui crisi di legittimazione ne annebbia la funzione giurisdizionale, di ritornare ad essere l’elemento essenziale della democrazia.

D’altra parte è un dato incontrovertibile che a distanza di oltre tre decenni di conflitto tra la politica e magistratura, quest’ultima sia passata da una condizione di massimo consenso, ai bassifondi della credibilità. Una delle cause più rilevanti è l’autodifesa a oltranza che pur essendo talvolta legittima in quanto protesa a respingere generalizzate e ingiustificate accuse di politicizzazione, ha colpevolmente indotto la magistratura a rinunciare a ogni critica anche laddove non vi erano dubbi vi fosse stata una impropria interferenza nell’area di discrezionalità della politica. La quale, a sua volta, ha frequentemente abdicato a rivendicare la propria indipendenza anche nei settori dove costituzionalmente le viene riconosciuta, così dando l’impressione di volersi posizionare al di sopra delle regole.

Al populismo politico, non giustificabile ma astrattamente comprensibile per la ricerca del consenso, si è contrapposto quello giudiziario attraverso il protagonismo di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. L’unico vero rimedio è il ritorno alla Costituzione e quindi a una corretta interpretazione delle disposizioni che definiscono il potere giudiziario, preservandone l’autonomia, l’indipendenza e la pari dignità rispetto a quello legislativo ed esecutivo, regolamentando al contempo e correttamente la funzione giurisdizionale nella consapevolezza che, a proposito di separazione delle carriere tra giudici e pm, il principio secondo il quale i magistrati si distinguono solo per la diversità di funzioni, non ha trovato una giusta attuazione neanche da parte dell’Organo di autogoverno della magistratura, che troppo spesso ha dato prevalenza a criteri formalistici, rinunciando di assegnare le funzioni a coloro che oggettivamente avevano maggiori capacità e attitudini.