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di Claudio Cerasa

Il Foglio, 22 aprile 2024

Segnali positivi in giro per l’Italia: da magistrati condannati per violazione del segreto istruttorio a maggioranze trasversali per riequilibrare i rapporti tra potere legislativo e giudiziario, fino ai moniti della Consulta. C’è speranza per il garantismo. Tu chiamale se vuoi emozioni garantiste. Come spesso capita quando il presidente della Repubblica sceglie di non lisciare il pelo della bestia mainstream, le parole utilizzate martedì scorso a Roma, durante una celebrazione in memoria di Vittorio Bachelet, sono state poco valorizzate dai giornali così detti antipopulisti, che scelgono con sapienza di azzannare il populismo solo quando è un bersaglio semplice, banale, scontato. Sergio Mattarella, a differenza di chi cerca ogni giorno di tirargli la giacchetta per trasformarlo in un argine contro il populismo meloniano, martedì ha usato parole interessanti, e sagge, per mostrare al pubblico una forma di populismo non meno pericolosa rispetto a quelle denunciate solitamente dai professionisti dell’antipopulismo e con un’espressione secca, parlando al Csm, ha detto quanto segue: “I componenti del Csm si distinguono soltanto per la loro ‘provenienza’. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti”.

Il presidente della Repubblica, sul tema della giustizia giusta, può fare ovviamente molto di più, e molto dovrà fare essendo il tema della giustizia giusta uno dei punti cruciali che ha messo al centro del suo secondo mandato, ma intanto un messaggio lo ha lanciato, seppure in codice: i giudici e i magistrati che inseguono il consenso sono giudici e magistrati che tradiscono un principio cruciale per chi ha il compito di proteggere la giustizia, ovvero la terzietà e l’indipendenza, e i magistrati che vogliono fare bene il proprio lavoro devono occuparsi un po’ più di reati e un po’ meno di consenso.

Le parole di Mattarella spingono gli osservatori meno distratti a ragionare sullo stato della giustizia in Italia, su quelli che sono gli anticorpi che il nostro paese sta provando a sviluppare contro un virus orribile, letale, chiamato circo mediatico-giudiziario, e rispetto a questa domanda qualche riflessione positiva è possibile formularla. Detto con una provocazione, e con una vecchia frase grillina: signori, ma il vento sta cambiando? Forse sì. Non sappiamo, ma lo speriamo, se il ministro della Giustizia, il nostro amico Carlo Nordio, utilizzerà davvero la forza politica che ha la maggioranza che sostiene il governo di cui fa parte per riformare la giustizia con la velocità adeguata (questa settimana potrebbe rivelare qualche sorpresa).

Da qualche tempo, però si possono notare in giro per l’Italia, governo a parte, alcuni cambiamenti, alcune svolte, alcuni fatti un tempo impensabili che riequilibrano anche la storiaccia che ci ha visto protagonisti (abbiamo osato criticare la procura di Firenze per il suo sconclusionato attivismo giudiziario di questi anni, sanzionato anche dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, il capo della procura di Firenze ha protestato, con parole minacciose, e si è rivolto al Csm, per essere tutelato, e in tutto questo i giornali in silenzio: perché è facile urlare al bavaglio quando si tratta della politica, è a costo zero, mentre è più difficile quando si tratta di procure, e quando si tratta di separare cioè le carriere dei giornalisti da quelle dei magistrati). E questi cambiamenti ci possono aiutare a utilizzare una lente non pessimistica per studiare il mondo della giustizia. Qualche fatto positivo c’è. L’elenco è questo e vale la pena unire i punti.

Un tempo sarebbe stato impensabile vedere magistrati di Milano di grido condannati per aver fatto quello che nelle procure negli ultimi anni è purtroppo successo spesso: violazione del segreto istruttorio. Incredibilmente, negli ultimi mesi è successo, è successo in modo clamoroso e la condanna in appello per Davigo è lì a dimostrare che anche nel mondo della magistratura esiste un desiderio crescente di non considerare i magistrati come soggetti al di sopra della legge.

Un tempo sarebbe stato impensabile vedere nascere in Parlamento maggioranze trasversali pronte a votare emendamenti finalizzati a portare più equilibrio nei rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, come quelli, numerosi, che il parlamentare di Azione Enrico Costa è riuscito a far approvare in Aula: obbligo di scrivere il costo delle intercettazioni negli atti al termine di ogni indagine, responsabilità disciplinare per arresti ingiusti e per violazione della legge sulla presunzione di innocenza, stop alle conferenze stampa dei pm senza interesse pubblico, divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, diritto all’oblio per gli assolti.

Un tempo sarebbe stato impensabile vedere una Corte costituzionale desiderosa di ammonire i magistrati inclini a usare le archiviazioni per prescrizione per sputtanare con giudizi morali un indagato: per la Consulta, infatti, un simile comportamento implica una responsabilità disciplinare e civile del magistrato. Un tempo sarebbe stato impensabile ascoltare dalla prima presidente della Cassazione, che oggi si chiama Margherita Cassano, frasi violente contro il processo mediatico, frasi come quelle rilasciate giorni fa al nostro giornale: “Non faccio fatica a definire il processo mediatico una patologia del nostro stato di diritto e non faccio fatica a definire una oscenità l’enfatizzazione dei processi mediatici in pendenza nella fase delle indagini preliminari, enfatizzazione che porta a considerare la persona nei cui confronti è formulata un’ipotesi di accusa tutta da verificare come soggetto già colpevole, attribuendogli uno stigma sociale che non si recupera nel tempo”.

Un tempo sarebbe stato impensabile vedere un Csm deciso a promuovere un ricambio in una procura (come quella di Firenze) avallando cambi di equilibri in quella procura (quelli che abbiamo raccontato in questi giorni) anche a causa dell’accanimento giudiziario messo in campo contro la famiglia di un politico (come Renzi). Un tempo sarebbe stato impensabile vedere una Corte costituzionale impegnata a favore delle garanzie dei parlamentari, quasi a voler ristabilire il perimetro delle guarentigie, come è successo con la sentenza sul caso Renzi (no, i messaggi e le mail di un parlamentare non possono essere oggetto di indagine se prima non si passa dall’autorizzazione a procedere del Parlamento) e come è successo con la sentenza del caso Esposito (no, intercettare le conversazioni di una persona che parla con un parlamentare senza passare dall’autorizzazione a procedere del Parlamento non si può). Mai sarebbe successo, come ha notato il nostro Ermes Antonucci, che un tribunale utilizzasse una sentenza (come è stato sul caso di Mimmo Lucano) per mettere in guardia i magistrati su quanto sia rischioso basare le loro indagini soltanto sulle intercettazioni (i giudici, esprimendosi sul processo a Lucano, hanno evidenziato come per diversi reati, per esempio il peculato, “la prova sia costituita in modo preponderante, se non totalizzante, dagli esiti dell’attività tecnica di intercettazione”, e di come questa preponderanza sia un tema di carattere qualitativo, “atteso che si tratta di elementi di prova decisivi per l’accusa in quanto illuminanti, come un faro nell’oscurità, i residui elementi documentali che, da soli, non sono in grado di dare dimostrazione - e dunque di offrire la prova - di sottostanti e artefatte condotte e, quindi, dei reati contestati”).

Certo, vedere magistrati che sbagliano gravemente e vengono puniti non con una radiazione ma con un trasferimento è doloroso. Certo, vedere magistrati sospesi per gravi errori che continuano a essere pagati dallo stato è ancora più clamoroso. Certo, vedere ancora oggi indagini che si aprono con il tempismo perfetto per condizionare la politica fa infuriare. Certo, vedere ancora oggi un governo che si professa come garantista che piuttosto di occuparsi di come offrire più garanzie ai cittadini si occupa di togliere garanzie aumentando le pene non incoraggia. Certo, vedere politici di destra e di sinistra che si accendono sui diritti nelle carceri solo quando questi diritti aiutano a portare acqua al mulino della propria propaganda amareggia e rattrista. Ma se si sceglie di unire qualche puntino si capirà che la volontà di creare un nuovo equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario esiste, si espande, aumenta, e il fatto che la spinta garantista più forte sia quella che si vede fuori dal governo è un elemento che incoraggia, che fa ben sperare nel futuro e che porta a suggerire al ministro Nordio di occuparsi un po’ meno degli equilibri del governo e un po’ di più della promozione del garantismo: lo spazio c’è, la novità c’è e perdere l’occasione per avere una giustizia giusta sarebbe il modo migliore per assecondare il populismo più pericoloso che c’è: quello penale, portato avanti con disinvoltura per troppi anni da una repubblica fondata sullo strapotere delle procure.