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di Alessandro Bergonzoni

La Repubblica, 29 gennaio 2024

Nel “decreto sicurezza” c’è una norma che considera reato nelle carceri anche forme di protesta non violenta. Mentre è permesso e legale restare indifferenti di fronte alle ingiustizie. Uccidere è possibile lecito quasi nemmeno più tanto celato, normale e costante, nelle carceri di tutto il mondo, e quindi anche nel nostro stato democratico. Ma “fare il morto”, cioè fingersi tale come estrema antica e gandhiana forma di resistenza passiva pacifica, è diventato reato, contro la legge (leggesi per repressione aumentata attivamente).

È permesso, concesso normale e spesso impunito, lasciare agonizzare anche un ricoverato in Tso (Franco Mastrogiovanni) per 82 ore, credendolo morto e immaginandolo vivo, o simulante, comunque lasciato in balia della propria sofferenza senza fare alcunché: la passività in questo caso è stata possibile e letale. Al pari è ammesso, legale e entrato nell’uso del conflitto di disinteresse, lasciare annegare al largo disperati profughi, per legge (o meglio vendetta come punizione “esemplare” per scoraggiare altri costretti a fuggire da dove fare il morto è un passatempo tipo Safari per prede umane).

Tutti costretti a fare il morto davvero affiorando o scomparendo nelle nostre ed altrui acque. È accettato e “necessario fare il morto” in un centro profughi libico, egiziano o tunisino, se sponsorizzato e pagato dalla Presidenza del Parlamento europeo e da quella del Consiglio italiano (dove si perpetra il numero più alto di stupri “legalizzati” del mondo, come durante ogni guerra, ma sembra ormai chiaro che quelle non sono le donne che vogliamo difendere ma “solo” gente altra).

Ho allargato volutamente il campo che parte da un decreto per i detenuti, per far capire cosa significhi per uno Stato, impedire una protesta passiva per poter far luce sui casi di reprimenda violenta attiva. Aggiungo che si comincia anche ad arrestare o multare chi “fa il morto” in strada, come forma di sit-in estremo ed esasperato, per tentare di far comprendere ormai fuori tempo massimo, quel che la scienza dice già da decenni: infatti tanti morti veri già galleggiano e continueranno a galleggiare nelle città alluvionate. Solo i privi di visione pur se vedenti (?), non riescono a mettere in relazione (amorosa e di diritti) con tutto il pianeta e i cambiamenti climatici sotto gli occhi, troppo sotto, di chi compie reati contro la terra, più reiterati e distruttivi di chi ne commette protestando.

Non c’è poesia che tenga, cioè non c’è verso, di far percepire che il male minore ormai è maggiorenne, ma chiede comunque di non vedere film dell’orrore e dell’errore, in ogni stagione ormai devastante che Dio manda in terra (o meglio che l’uomo prepara con dovizia d’inazione e mancanza colposa di previsione, ancora una volta di una passività, questa sì ingiusta e pericolosa).

La misura è colma o il colmo non ha più misura? Studiosi, filosofi, saggisti, saggi, faggi, agronomi, antropologi, psicologi, poniamo insieme le basi di una ricerca approfondita sulla “dismisura della passività”, amministrativa legislativa onnicomprensiva, con grazia e giustizia, tra “fare il morto” e essere morto, nel rispetto della Costituzione, che non definirò mai più la più bella fino a quando non avrà applicazione, realizzazione e rispetto in ogni suo passo e che se interpretata con passività porta sempre ad ulteriori disastri per il clima in generale e quello particolare che si respira nei luoghi di pena.

Siamo al troppo pieno delle vasche, dei lavandini, siamo sull’orlo di quello che io definisco il “percipizio” non solo precipizio. Soltanto entrando in quel baratro, in quel laggiù profondo, si può percepire fino in fondo appunto, la dismisura abissale che c’è tra essere e uomo, tra persona e legislatore, tra natura e lo snaturarla, tra giudice e giusta pena, tra immobilità politica grave e libera passività di protesta di un reo, tra silenzio e violenza, protesta e manifestazioni pacifiche a fin di lungimiranza, e soppressioni sul nascere rischiando di farci scappare l’ennesimo morto.

Chiedo che questa realtà “diminuita” per travisamento di garanzia di sicurezza nelle galere, almeno si confronti col bisogno di coscienza “aumentata”, che piazze e anime, studenti e donne, lavoratori e obiettori di connivenza ed omertà, stanno facendo nascere per farci vivi, “per fare il vivo”, quantomeno per salvarlo rispettarlo proteggerlo tutelarlo. È pura Ars Vivendi Creandi et Generandi, che ora non ha più niente di artistico: ed infatti la mancanza del lavorare ad arte, porta e porterà sempre più esseri a “fare i morti”, in tutti e due sensi. La certezza della pena non continui a giustificare l’incertezza del rispetto e della dignità di chi non migliorerà mai, né cambierà, né si ravvederà, se a sofferenza e vessazione se ne aggiunge altra, parimenti illegale per chi è in carcere non avendo rispettato un diritto. Esemplare deve essere il trattamento mai il castigo.