di Serena Sileoni
La Stampa, 5 agosto 2024
Si potrebbe chiamare l’estate dei referendum. E non solo per la fruttuosa raccolta firme per quelli sull’autonomia differenziata e sul Jobs Act, o per i preparativi all’orizzonte del referendum costituzionale sul premierato (e magari anche sulla separazione delle carriere dei magistrati). Da una decina di giorni, è attiva un’importante innovazione: una piattaforma online per le firme necessarie a presentare la richiesta dei referendum abrogativi e le proposte di legge di iniziativa popolare, già avviata dal governo Draghi e ora resa finalmente operativa dal ministro Nordio. Una innovazione modesta, se paragonata ai tentativi di introduzione del voto elettronico che sono stati sperimentati all’estero, ma comunque un piccolo, grande passo avanti per i principali strumenti di partecipazione popolare alle decisioni politiche. Proprio da questa piattaforma, dall’interfaccia un po’ grossolana ma comunque sicura grazie al sistema Spid, si scopre che quelli contro il Jobs Act e l’autonomia differenziata sono i due più importanti di ben undici referendum in questo momento aperti alle sottoscrizioni, a cui si aggiungono quattro proposte popolari di legge. Sono anche i due referendum su cui, come detto, sono state già raggiunte le firme necessarie per avanzare la richiesta, che deve passare ora il controllo di regolarità della Corte dei Conti e poi quello, dagli esiti ben più incerti specie per il referendum contro la legge Calderoli, di ammissibilità della Corte costituzionale, prima di poter essere sottoposti al voto popolare e, quindi, di superare il quorum di validità.
Finora, in Italia si sono tenuti quasi 78 referendum, la maggior parte abrogativi. Tanti, ancor più se si pensa che non esistevano prima del 1970, anno in cui venne approvata la legge che ne disciplina lo svolgimento. Un ritardo paradossale, in un certo senso, visto che la Repubblica nasce proprio su un referendum, quello del 2 giugno. In ogni caso, un ritardo dovuto non a noncuranza, ma a quell’ostruzionismo di maggioranza, come lo chiamò Calamandrei, che caratterizzò la lunga prima fase repubblicana e che, per i referendum, fu corteggiato anche dal partito comunista, dichiaratamente ostile al voto referendario come espressione di contro-potere politico. È noto che la legge venne poi approvata come tentativo della maggioranza democristiana di sfidare l’approvazione in Parlamento della legge sul divorzio, ad essa coeva. Da allora, il partito radicale per primo sarebbe stato il promotore di un ricorso sempre più frequente al voto abrogativo, con esiti spesso deludenti. Trentatré, difatti, non hanno nemmeno raggiunto il quorum di validità. Si tratta di un dato comprensibile, sia perché un ricorso frequente all’istituto referendario rischia di sminuirne il valore, sia perché l’astensione, e quindi il mancato raggiungimento del quorum, rappresentano una strategia di voto. Ciò non toglie che il referendum indichi vitalità della democrazia, vivacità dell’opinione pubblica e valorizzazione da parte del sistema politico degli strumenti di partecipazione popolare alle scelte pubbliche.
Tuttavia, l’enfasi referendaria che caratterizza questa estate ha un lato meno solare. La si deve da un lato all’adesione di Elly Schlein, e con essa di buona parte del suo partito, all’iniziativa di Landini contro il Jobs Act, una legge voluta e votata dal Pd, per quanto in una stagione politica diversa; d’altro lato, all’impeto con cui è stata organizzata l’iniziativa contro la legge Calderoli; infine agli assaggi di campagna elettorale per il referendum costituzionale sul premierato. Si aggiunga a questi elementi la proposta di legge popolare per l’introduzione di un salario minimo, frutto di una iniziativa dei partiti di opposizione, in particolare Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, i quali, anziché portare avanti una proposta di legge di iniziativa dei loro parlamentari, hanno deciso in tal modo di appellarsi al popolo. È proprio questo sospetto appello al popolo che getta un’ombra sull’estate referendaria. Non si vorrebbe infatti che tutto il trasporto per il voto popolare nasconda il solito elefante nella stanza: la necessità di colmare la debolezza del sistema politico con la forza dell’opinione pubblica.
È definizione corrente che i referendum siano espressione di democrazia diretta. Il modo in cui sono disciplinati e la storia stessa di quelli trascorsi dovrebbero indurre a chiederci se questa formula sia appropriata. Forse è meglio considerarli una chiamata al voto da parte di istanze ben organizzate, spesso gli stessi partiti o sindacati, nella quale le persone sono invitate a una scelta secca su quesiti anche complicati. Non a caso, una delle preoccupazioni maggiori della Corte costituzionale nel dichiararne l’ammissibilità è proprio la chiarezza del quesito e degli effetti del voto. Una ri-definizione di tal genere dell’istituto referendario non mette in dubbio che sia uno strumento salutare di partecipazione alla (e della) democrazia rappresentativa. Ma proprio per non intaccarne l’importanza, è bene invocarli e maneggiarli con cura e trattarli come tali, piuttosto che come i più genuini strumenti di democrazia del popolo e dal popolo. Il voto è il diritto politico più importante che abbiamo. Attenzione quindi a non trasformare quello referendario in un match continuo in cui il sistema politico resta in panchina e la conflittualità che esprime viene caricata sulle matite dei cittadini.