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di Lilia Giugni

La Repubblica, 29 agosto 2022

“La rete non ci salverà” è il saggio scritto dalla ricercatrice napoletana a Cambridge Lilia Giugni, fondatrice di un think tank che si occupa di questioni di genere. Ecco un’anticipazione.

Quando parliamo di processi partecipati, di democratizzare le scelte riguardanti la tecnologia, e più di tutto di mettere le donne al centro di questa partecipazione e di questa democratizzazione, ci scontriamo con due barriere grandi quanto una casa.

La prima si chiama molestia sul lavoro e nello spazio pubblico, e continua a essere un formidabile strumento di controllo delle donne e delle loro rivendicazioni. Suppongo non abbiate dimenticato le vicende, così diverse eppure così simili, delle varie lavoratrici del tech prese di mira mentre tentavano di svolgere il proprio compito, o magari di rimediare ai lati più oscuri della rivoluzione digitale. E che concordiate con me che mai come in questo caso il serpente la coda se la morde proprio bene. Violenze e discriminazioni minano il diritto delle donne ad avere una voce nei dibattiti e nelle attività concernenti la tecnologia. Le loro istanze e le loro necessità vengono, così, costantemente spinte ai margini. Et voilà, il tutto si traduce nella creazione di tecnologie escludenti, e in una frustrante inerzia su abusi e sfruttamento di genere. Di conseguenza, ci sono alcune cose che è tassativo fare senza se e senza ma.

I luoghi di lavoro e di confronto politico (aziende tech, uffici pubblici, partiti, parlamenti e gruppi politici) richiedono tutti procedure rapide, sicure ed efficaci di denuncia delle molestie e di gestione dei reclami. Seri interventi educativi di prevenzione, a livello organizzativo come sociale, vanno condotti con urgenza. E si sono decisamente esaurite le scuse per non costruire reti di supporto professionale e per non erogare aiuti finanziari a sostegno delle donne vittimizzate, e delle comunità che le appoggiano.

L’altro ostacolo che ormai proprio non possiamo più nascondere sotto il tappeto è il gap digitale di genere che affligge l’intero pianeta, il cui influsso sulla scarsa partecipazione delle donne (e soprattutto di alcune di loro) alla costruzione di un diverso futuro digitale ha a stento bisogno di spiegazioni. Come può una qualunque decisione presa in materia di tecnologia dirsi realmente partecipata se milioni di donne e ragazze manco hanno accesso a Internet? Come possiamo sperare di rendere più equa la progettazione e la regolamentazione tecnologica se un sostanzioso segmento della popolazione mondiale ha consistentemente meno probabilità di sapere come la tecnologia funziona, di familiarizzare con essa, di sentirla parte della propria vita? A contribuire al differenziale digitale di genere sono fattori alquanto intricati: i costi ancora relativamente alti di tante tecnologie; l’assenza di connessione in vaste zone territoriali di tutti e cinque i continenti; la mancanza di seri piani per far fronte a oscene disuguaglianze economiche.

Mi permetto di riaffermare una verità abbastanza auto-evidente: anche in quest’area, i modelli di tassazione dell’industria tech e i provvedimenti redistributivi male certamente non farebbero. Come non fanno male - e anzi, sono di primaria importanza - gli sforzi di sensibilizzazione finalizzati a sfatare stereotipi sul rapporto tra donne e digitale, specie se condotti a beneficio di gruppi caratteristicamente esclusi dalla tecnologia. Mi vengono in mente le borse di studio per le giovani che vogliano studiare materie STEM (già esistenti in alcuni Paesi del sud globale), e le iniziative di formazione permanente per donne di una certa età, adattate a seconda delle loro esigenze e dei loro interessi. E mi vengono in mente, più di tutto, le scuole di programmazione aperte nelle periferie di varie città del mondo, e la community internazionale Lesbians Who Tech, che, tra le sue diverse attività, sovvenziona diplomi in “coding” a donne queer e persone non binarie. Menziono questi specifici esperimenti non perché si debba giocare alle Olimpiadi del politicamente corretto, dove per far bella figura dimostriamo di non aver dimenticato nessuno nella foto di gruppo. Ma perché, vari fenomeni di marginalizzazione si rinforzano a vicenda, e suppurano poi le nostre tecnologie. Per tutelare tutte, la lotta per la giustizia digitale di genere non può quindi lasciar fuori nessuna.

Viviamo un periodo storico in cui garanzie, tutele e persino basici principi in difesa di chi lavora sono costantemente sotto attacco. E non appena si inizia a parlare delle lavoratrici più vulnerabili del tech, ecco che d’un tratto si innalzano gli scudi. “È l’economia globale, baby”. “Se diamo maggiori diritti alla forza lavoro, le nostre imprese delocalizzeranno altrove. E se non delocalizzano loro, lo farà qualcun altro”. O persino: “Ma che colpa ne abbiamo, noi, se ci sono Paesi con scarsissime protezioni sindacali? E cosa possiamo farci se questo scatena una corsa al ribasso a livello globale?”. Intendiamoci: non è che le complessità legate alla globalizzazione della nostra economia non siano penosamente reali. Solo che una civiltà degna di questo nome quelle complessità avrebbe il santissimo dovere di interrogarle, e di impedire che esistenze umane vengano stritolate per costruire uno smartphone o far funzionare una app. Tanto più che molte lavoratrici del tech hanno le idee ben chiare su come ci si dovrebbe muovere per soddisfare i loro bisogni.

Ha le idee chiarissime, ad esempio, la moderatrice social Isabella Plunkett che, insieme a un’avvocata specializzata in lavoro digitale, Cori Crider, ha recentemente presentato al Parlamento irlandese delle raccomandazioni molto persuasive sulla regolamentazione della moderazione di contenuti. Tra le altre proposte, Isabella e Cori consigliano di vietare la pratica degli accordi di riservatezza, sempre più diffusa nell’industria digitale, e sempre più utilizzata per dissuadere moderatori e altri impiegati dal denunciare i torti che subiscono. Questa loro visione si aggancia a un principio riconosciuto dalla legislazione d’impresa in molti regimi giuridici: il presupposto che le compagnie abbiano un duty of care (dovere di cura) nei confronti dei componenti della propria forza lavoro. Indubbiamente, e specie in campi nuovi e in continua evoluzione come il digitale, quella del “dovere di cura” aziendale rimane troppo spesso una formula vacua, che va sancita e inquadrata mediante discipline stringenti. Nel caso di moderatrici e moderatori social, però, è facile intravedere come si potrebbe far leva su questo principio negli ordinamenti nazionali, e adoperarlo per limitare la durata dei turni di lavoro e obbligare le imprese a fornire allo staff assistenza psichiatrica professionale.

Come sappiamo, infinite complicazioni derivano poi dalla tendenza delle multinazionali tech a delegare gran parte delle proprie operazioni a compagnie intermediarie, spesso dislocate in Paesi non occidentali. E sì, anche stavolta è innegabile che, come ci si muove ci si muove, rischiamo di mettere a repentaglio forze lavoro già fragili in vari angoli del pianeta. Ciò detto, una parziale soluzione ce l’abbiamo davanti agli occhi: spingere le piattaforme (con la carota e se necessario anche a colpi di bastone) a mantenere in house almeno le attività che vanno al cuore stesso del loro business (vedi la moderazione di contenuti), evitando così di creare forze lavoro di serie A e di serie B.

Il libro - La rete non ci salverà di Lidia Giugni (Longanesi, pagg. 300, euro 19)