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di Carlo Galli

La Repubblica, 9 febbraio 2023

Difenderla e accettare il peso del nostro passato è la nostra sfida. D’accordo. Benigni non è un costituzionalista, ma un attore. Sanremo è un festival di canzonette e non è un’aula universitaria né una delle Camere. La politica non è (soltanto) uno spettacolo ma è (o dovrebbe essere) un affare serio. Eppure, non è stata una sgrammaticatura, un imbarazzante passo falso, quella “lezione” sulla Costituzione che è andata in onda martedì sera. Ha avuto un senso. E non soltanto perché in sala era presente - sia pure in forma privata - il Capo dello Stato, che della Costituzione è il custode. Ma perché quello che Benigni, a modo suo, con i suoi mezzi espressivi, ha comunicato è un concetto vero, che ha a che fare con un problema vero, con un bisogno reale. Con l’esigenza della “Costituzione vivente”, cioè di una Costituzione che sia sentita e interpretata come il filo conduttore dell’esistenza di un popolo; e, per converso, con l’esigenza che questa esistenza sia “costituzionale”.

Da una parte, insomma, si deve evitare che la Costituzione sia un “pezzo di carta”, sostanzialmente ignoto - oppure oggetto soltanto di letture specialistiche -, non influente nella realtà della vita collettiva, sociale, e istituzionale. Al contrario, si deve operare per cogliere nella Costituzione il valore di una discontinuità, di un progetto nuovo, sofferto e pensato dopo errori e tragedie, e pagato a caro prezzo. Una lettura storica, o meglio ancora “drammatica”, della Costituzione può ben passare attraverso la valorizzazione dell’articolo 21, che sancisce il diritto di libera manifestazione del pensiero; e attraverso la comparazione fra un “prima” e un “dopo”, fra la paura di parlare e la libertà, fra il sospetto e la franchezza. Da un attore può venire una plastica suggestione a immedesimarci nelle due possibili situazioni, e a fare nostro il valore, la portata, di quel salto, di quel passaggio di settantacinque anni fa.

La Costituzione nella sua valenza storica, vissuta, è un progetto di democrazia che è stato realizzato solo in parte, che ha ancora molto spazio per diventare, come deve, davvero vivente. Cioè per diventare parte integrante dell’identità della nazione, per dare senso all’esistenza collettiva. Che di senso, di orientamento, ha davvero bisogno: uno dei rischi più grandi che stiamo correndo è quello di una politica - e di una vita civile - priva di profondità storica, tutta e solo concentrata su polemiche di basso profilo e sui problemi dell’attualità (nemmeno su tutti, in realtà), che sono certamente molti e gravi, ma che non troveranno vera soluzione al di fuori della Costituzione. Che da evento passato deve farsi anche prassi presente e orientare il futuro. Che da sogno deve diventare realtà materiale e morale.

E ciò significa pensare tutta la nostra storia, conoscerne la continuità per meglio comprendere la discontinuità marcata dalla Costituzione. Non si può ignorare o censurare questo o quel passaggio, questo o quel momento. Non si può tacere sul fascismo, insomma, o considerarlo un reperto storico come le guerre puniche, o limitarsi a condannare le leggi razziali e l’entrata in guerra con Hitler senza cogliere l’intimo nesso di questi passi catastrofici con la natura stessa del regime. Né si può allontanare il tema con fastidio, come se si trattasse di una provocazione politica; perché non si tratta qui di sostenere che l’attuale governo è fascista (evidentemente non è vero) ma di accettare il peso del passato, di farcene carico, per aderire tutti più radicalmente e più sinceramente alla Costituzione e al suo spirito democratico.

La Costituzione non è un feticcio intoccabile, certo, ma trae il proprio senso dalla critica aperta del fascismo, dal suo superamento esistenziale, dalla rottura profonda con quell’esperienza politica. Comprendere che questa non è una polemica di parte significa comprendere la nostra identità. Che è plurale, ovviamente, ma che è anche collettiva - o, con un termine che dovrebbe essere caro alla destra oggi al governo, nazionale - : e che è democratica. Significa riconciliarci con la nostra storia, proprio col criticarne apertamente un periodo (il che non toglie che lo spirito critico si debba esercitare responsabilmente su ogni fase della nostra vita unitaria). E significa stare nel mondo di oggi, davanti a sfide e ad emergenze veramente esistenziali - in cui pace e guerra, democrazia e tirannide sono di nuovo problemi urgenti -, con quanto serve di democratica consapevolezza identitaria e costituzionale. Che questa passi anche attraverso un contesto nazionalpopolare come San Remo, è un segno dei tempi. Che si radichi in un costume politico, civile, sociale, è un’esigenza e una speranza.