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di Marianna Filandri

La Stampa, 2 agosto 2023

Si parla molto in questi giorni di misure di contrasto alla povertà in seguito alla comunicazione di sospensione del Reddito di Cittadinanza a una parte dei beneficiari. Perché è stato sospeso? Non perché le famiglie sono uscite dalla condizione di povertà. Piuttosto il governo ha considerato che senza questa forma di sostegno al reddito molti si attiveranno per trovare un’occupazione o per frequentare un corso di formazione.

Questo però è molto improbabile. Per comprenderlo guardiamo alle cause della povertà. Sono numerose, complesse e interrelate tra loro. Riguardano, ad esempio, il livello di istruzione, lo stato di salute, il territorio dove si nasce, le condizioni abitative, le relazioni sociali che si hanno. Su tutte però vi è una dimensione che più delle altre predice la condizione di povertà: la famiglia di origine. Nascere in una famiglia povera aumenta moltissimo la probabilità di essere poveri, al contrario nascere in un nucleo benestante protegge da questo rischio.

Questo è particolarmente vero in Italia, un paese ritenuto piuttosto immobile. Cosa significa? Significa che sono poche le persone che si discostano dalla posizione dei genitori nella stratificazione sociale. Chi proviene da una classe alta rimarrà in una classe avvantaggiata e similmente chi proviene da una classe bassa rimarrà in una classe svantaggiata. Secondo i dati del World Economic Forum di qualche anno fa, il nostro paese era tra gli ultimi posti in Europa, seguito solo da Ungheria, Bulgaria, Romania e Grecia. L’immobilità non è una novità.

Secondo uno studio di Banca d’Italia nella città di Firenze i cognomi delle famiglie più ricche sono gli stessi da seicento anni. Questi dati fanno sorgere dubbi sulle reali possibilità delle persone in difficoltà di uscire dalla loro condizione di indigenza. Tuttavia, un’ampia parte del discorso pubblico sulla povertà pone l’accento sulle responsabilità individuali. Così è stato rivisto l’accesso al sostegno al reddito per le persone povere. Individui e famiglie in condizione di deprivazione economica sono ritenuti in qualche modo colpevoli della loro situazione. Il lato positivo di riconoscere una grande capacità di agency agli individui è controbilanciato dalla considerazione che gli interventi pubblici sono considerati poco utili. Può lo Stato usare soldi pubblici per aiutare individui svogliati? Al massimo può ipotizzare misure di educazione. Da qui l’idea che le azioni del governo non mirino a contrastare la povertà, ma i poveri (pigri). Sebbene così facendo sono trascurate completamente le dimensioni strutturali di immobilità delle problematiche relative all’emarginazione, al disagio socioeconomico e alla coesione.

Le conseguenze di questa visione ricadono su tutti. La povertà è un problema collettivo. In primo luogo, va affrontata per ragioni morali. È una società ingiusta quella che accetta un modello di società civile dove una parte di popolazione ha accumulato ricchezze a fronte di un’altra impoverita con grandi difficoltà ad arrivare a fine mese. In secondo luogo, va affrontata per motivi razionali. Un paese con un alto livello di povertà è un paese dove sono frequenti abbandoni scolastici, episodi di criminalità, malattie, sfratti, sentimenti di insicurezza e sfiducia. I costi per lo Stato aumentano all’aumentare del tasso di povertà. Una riduzione, dunque, migliorerebbe non solo la condizione delle persone povere, ma anche quella di chi non lo è. E con un buon risparmio sulla spesa sociale.