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di Gennaro De Falco

Il Riformista, 10 novembre 2022

La giustizia in affanno e l’amnistia come urgente e indifferibile necessità. Ne ho già scritto sulle pagine di questo giornale e torno a farlo. La mia percezione, che poi ormai è una certezza, è che nessuno nell’avvocatura si opporrebbe ad un provvedimento di clemenza e, se devo dire la verità, non mi pare che le posizioni della magistratura siano diverse. Il problema a questo punto è spiegare e far capire all’opinione pubblica e alla politica quale è realmente la situazione della giustizia penale nel nostro Paese e che l’amnistia non sarebbe una resa della Stato di fronte alla criminalità.

Io sono, ero e sarò sempre un accanitissimo avversario del codice di procedura penale del 1989 e mai potrò dimenticare cosa ne diceva il giudice istruttore del Tribunale di Marsiglia già nei primi anni ‘90 ma non riporto l’espressione che usò solo per rispetto al mio Paese. Bisogna riconoscere che le lungaggini dei primi gradi ritardano enormemente i processi facendoli prescrivere prima di iniziare, ci sono processi per fatti del 2010 ancora in primo grado alle primissime battute e questo non me lo hanno raccontato, lo vivo purtroppo ogni giorno. Le lungaggini dei primi gradi e delle indagini rallentano o spesso evitano l’arrivo dei processi in Appello, e quando e se ci arrivano restano lì per anni ed anni perché non si riesce a smaltirli neppure fisicamente. È anche vero che prima in Corte di Appello i magistrati erano cinque mentre ora sono tre e il lavoro che si fa in cinque non si può certamente fare in tre, tra l’latro con un personale amministrativo come quello che c’era, la cui età media era di oltre sessant’anni. Ora per fortuna sono arrivati dei giovani ma ormai la frittata è fatta.

E poi, e soprattutto, prima periodicamente lo Stato perdonava, azzerava e ripartiva daccapo con le amnistie che erano parte strutturale e valvole di sicurezza di un sistema già di per sé molto ma molto più ragionevole, garantista coerente e per questo equilibrato ed efficiente. Ad esempio, il codice Rocco prevedeva che entro tre giorni dalla sentenza l’avvocato che volesse appellare dovesse presentare la cosiddetta dichiarazione di appello e così il giudice già da prima sapeva ed era stimolato ad essere più accurato nelle sue motivazioni. Orbene, partiamo da un dato: se gli appelli sono moltissimi e durano tanto, anche una decina di udienze e più, è perché sono difficili da decidere e se sono difficili da decidere una ragione c’è ed è evidente, vale a dire il fatto che gli errori in primo grado ci sono e sono tantissimi anche perché i processi più gravi e complessi, e quindi potenzialmente ed insostenibilmente costosi per il cliente, vengono per questa ragione decisi con il giudizio abbreviato dai gup che sono giudici monocratici e come può una sola persona, assediata e subissata da termini e scadenze perentorie e da istanze il più delle volte assolutamente inutili che gli avvocati sono costretti a presentare sotto la pressione dei clienti che a loro volta li assediano con le richieste più assurde, non cadere in errore? Quindi, nonostante il rito abbreviato che “protegge” le loro decisioni i gup sbagliano spessissimo.

Inoltre, con il codice Rocco non tutto arrivava in Cassazione; oggi con il codice Vassalli devo dire giustamente in Cassazione arriva tutto, ma bene o male in quella fase il sistema tiene e ci sarebbe da domandarsi perché. Il mio lettore più ottimista, per non dire ingenuo, potrebbe dire che è vero che in Appello impiegano una decina di anni per decidere ma le sentenze le fanno bene perché la Cassazione dichiara inammissibili o rigetta quasi tutti i ricorsi. In realtà che la Cassazione dichiari inammissibili o rigetti quasi tutti i ricorsi è verissimo ma bisogna considerare due altri aspetti che possono spiegare il fenomeno, vale a dire che il ricorso per Cassazione ha binari molto rigidi e ristretti e soprattutto che i ricorsi vengono redatti il più delle volte in maniera molto poco accurata e questo per le solite ragioni, cioè la ridottissima capacità economica dell’utenza che rende impossibile un lavoro di buona qualità da parte degli avvocati che fossero in grado di prestarlo e la sostanziale impossibilità di ottenere i compensi dei ricorsi per Cassazione dei patrocini a spese dello Stato da parte delle Corti d’Appello.

Dalla mia ormai ventennale esperienza posso dire che se il ricorso è fatto bene o anche in maniera sufficiente, la Cassazione annulla ed annulla anche molto spesso (e poi si ricomincia tutto daccapo per almeno altri dieci anni) ma la retribuzione dei ricorsi in favore dei non abbienti, dopo processi che pure sono durati decine di anni e solo perché si è fatto ricorso al rito abbreviato mediamente, quando avviene, richiede un’altra decina di anni, anche perché giudici e personale amministrativo in questo caso, quando raramente non perdono le carte e non dimenticano qualche timbretto, diventano di una meticolosità assolutamente certosina. In altri termini l’avvocato che voglia difendere un non abbiente in Cassazione deve essere ricco di suo e soprattutto immortale! A questo punto, visto che il sistema fa acqua da tutte le parti e anche se si viene in tribunale muniti di ombrello questo in un attimo di distrazione sparisce nel nulla in un battibaleno, sarebbe assai meglio una bella amnistia e provare a ripartire daccapo e dire a Bruxelles che da noi i processi durano poco anzi pochissimo, senza dirgli che abbiamo proprio rinunciato a farli, tanto non se ne accorgono o fanno finta di non accorgersene, che poi è la stessa identica cosa.