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di Catello Vitiello

Il Riformista, 17 gennaio 2024

All’inizio sarà positivo, ma non andrà sottovalutata la possibile dilatazione di quei reati più gravi. È vero che la scelta di abrogare radicalmente il reato di abuso d’ufficio risolve il fenomeno del cosiddetto “timore della firma”, che paralizza gli amministratori e in particolare i sindaci? In parte, sì. È certamente fondato il timore dovuto alla scarsa determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio descritta dal codice, in ragione del totale controllo del giudice penale sui limiti della discrezionalità amministrativa, rimessa completamente alla scelta interpretativa di chi investiga. Anche gli obblighi previsti dalla normativa sovranazionale in materia di anticorruzione non conducono a legittimare l’estrema “vaghezza” della fattispecie e, men che mai, l’arbitrio interpretativo. In realtà, la genericità della formulazione era nota al Legislatore del 1930, che scelse una formulazione indefinita che non descriveva tutti i vizi tipici degli atti amministrativi, avallata comunque dalla Consulta che preferì far prevalere il carattere abusivo della condotta sulla effettiva illegittimità dell’atto.

Le riforme successive, quella del 1990 e del 1997, non rimediarono alla indeterminatezza del testo originario, producendo effetti anche peggiori. Dopo l’aumento della sanzione previsto nel 2012, si arriva alla modifica del 2020 che ha avuto il solo merito di “provocare” una pronuncia della Corte costituzionale nel 2022 con la quale si è riconosciuta l’esistenza del fenomeno della “burocrazia difensiva” che comporta la scelta degli amministratori pubblici di non assumere decisioni comunque utili al perseguimento dell’interesse pubblico e di appiattirsi su prassi meno impegnative che non comportano la loro sovraesposizione. Infatti, pur sottraendo al giudice penale la possibilità di valutare l’inosservanza dei principi generali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione fissati dall’articolo 97 della Costituzione, il nuovo abuso d’ufficio continua a creare confusione tra l’uso “illecito” e l’uso “distorto” del potere pubblico.

E allora cosa fare? Come al solito, problemi complessi richiedono soluzioni altrettanto complesse. La “sindrome della firma” costituisce senz’altro un fenomeno con cui fare i conti, vista anche l’incidenza riconosciuta dalla Consulta nel 2022, che ha rilevato come i pubblici amministratori non siano frenati soltanto dalla paura della condanna, ma anche e soprattutto da quella della mera esistenza del procedimento penale e della conseguente gogna mediatica. La soppressione della norma penale senza un intervento legislativo che semplifichi davvero le procedure amministrative e che riveda le fattispecie penali esistenti avrà, all’inizio, un effetto certamente positivo soprattutto nei confronti degli amministratori già sottoposti a procedimento penale per abuso d’ufficio o già condannati. Col tempo, però, non andrà sottovalutata la possibile dilatazione di quei reati più gravi come l’omissione di atti d’ufficio, il peculato per distrazione, la turbativa d’asta, la corruzione, etc., che faranno riemergere con maggiore forza la burocrazia difensiva.

L’attuale scelta abrogativa, quindi, è certamente giustificata dalle distorsioni investigative e giurisprudenziali degli ultimi tempi a danno della classe dirigente, ma non potrà prescindere da un serio adeguamento delle procedure amministrative e del sistema dei controlli in seno alla P.A., facendo chiarezza delle disposizioni inerenti alle competenze dei sindaci, dei dirigenti e dei funzionari amministrativi e assegnando ad ogni potere la corrispondente e cristallina responsabilità.

Se qualcuno ritenga assurdo lasciare scoperti dal presidio penalistico abusi di funzioni e di poteri dall’indubbia illiceità, dovrà poi ricordare che è certamente doveroso limitare il sindacato penale sull’attività amministrativa perché all’autorità giudiziaria non spetta la valutazione in astratto del perseguimento dell’interesse pubblico, ma la verifica in concreto della condotta illecita descritta dalla norma e posta in essere dall’amministratore pubblico, politico o meno che sia.