sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Desi Bruno*

Ristretti Orizzonti, 6 gennaio 2024

L’ordinamento penitenziario prevede agli artt. 74 -77 un apposito organismo, istituito presso ogni Tribunale, volta a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e sostenere le vittime di reato. È una norma introdotta con la riforma del 1975, ma di fatto quasi mai utilizzata, anche se di recente è stata attivata presso il Tribunale di Palermo.

Siamo abituati da decenni ad accordi, convenzioni, tavoli, commissioni più o meno permanenti sui temi del carcere, meritoriamente attivati dagli enti locali in primis ma anche dal Dap, dal Ministero di Giustizia, sino alla non lontana convocazione dei tavoli per l’esecuzione penale.

Da ultimo va ricordato il recente accordo inter-istituzionale tra il ministero della Giustizia e il Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del lavoro) volto a promuovere il lavoro penitenziario come strumento di reinserimento sociale e abbattimento della recidiva e ad accrescere le competenze dei ristretti per fornire una adeguata preparazione professionale, stabilendo opportuni contatti con le organizzazioni datoriali e il terzo settore, tramite l’istituzione di una apposita cabina di regia presso il Dap.

Quello che spesso manca, e che spiega in parte i numeri modesti del lavoro penitenziario, è il collegamento tra la possibile domanda e l’offerta, tra le iniziative volte a creare effettive opportunità, l’assenza di una banca delle disponibilità da valutare in concreto e su cui investire magari formazione e risorse.

Il Consiglio di aiuto sociale è descritto come un organismo che vede la presenza del presidente del tribunale, di quello minorile, di un magistrato di sorveglianza, di dal prefetto, del sindaco o di loro delegati, di un dirigente dell’ufficio provinciale del lavoro, di un rappresentante diocesano, dei direttori di carcere del circondario e di sei componenti qualificati nell’assistenza sociale nominati dal presidente del Tribunale tra quelli indicati da enti pubblici e privati.

Certo la norma dovrebbe forse essere rivista: la figura del medico provinciale, non più esistente, dovrebbe essere sostituita dal dirigente sanitario dell’istituto penitenziario, e ancora integrata con la figura dei garanti territoriali, mentre la rappresentanza dell’Uepe potrebbe essere intanto superata mediante l’indicazione dei componenti qualificati nell’assistenza sociale.

Ma il punto non è questo: le attività del Consiglio di aiuto sociale sono ciò che è di interesse, dalla verifica del mantenimento dei rapporti tra famiglie e detenuti, dalla predisposizione di corsi di formazione professionale, alla verifica di opportunità di collocamento lavorativo, alla segnalazione delle urgenze agli enti preposti.

Il Consiglio di aiuto sociale si occupa altresì delle vittime (art. 76) e dei minori orfani a causa di delitto. Non pare che sia da sottovalutare questo intervento in tempi in cui è stringente il tema del soccorso anche materiale alle molte donne che tentano di fuggire da situazione di maltrattamenti o comunque di violenza subita e ai minori vittime di femminicidi.

Ancora, a fianco del Consiglio di aiuto sociale, è previsto un comitato per l’occupazione degli assistiti dal primo, per avviarli al lavoro, comitato che prevede la presenza di rappresentanti dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura, designati dal presidente della locale camera di commercio, oltre a rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati, dell’ufficio provinciale del lavoro e dell’amministrazione penitenziaria. I componenti tutti svolgono gratuitamente la loro attività e per le spese per l’attività nel settore penitenziario o post-penitenziario provvede anche la Cassa ammende.

Certo, ogni altro collegamento con le Regioni, il Dap, il Ministero, l’Anci, ecc. sarebbe necessario e imprescindibile, ma partendo dalla realtà territoriale potrebbe essere questa l’occasione di un proficuo lavoro sulle effettive possibilità di reinserimento, anche da utilizzare per l’ammissione a misure alternative, senza lasciare spazio a ricerche di lavoro o di sostegno a volte affannose e mal indirizzate e assumendo come “ordinario “il reperimento di opportunità di reinserimento.

Forse non abbiamo più bisogno di esperienze di “nicchia”, di convegni volti a presentare ciò che è esperienza di pochi che si sa difficilmente potrà essere esportata altrove, in assenza di risorse e in quadro di sistema penitenziario che non muta, a dispetto di ogni vera o presunta riforma. Il carcere è sempre troppo uguale a se stesso, almeno per i più e sempre faticoso per chi vi opera. E allora perché non provarci?

*Avvocato Camera penale di Bologna già Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Bologna