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di Lucetta Scaraffia

La Stampa, 16 ottobre 2023

Uno degli effetti collaterali della grande diffusione di fake news che intossica il nostro tempo è che siamo indotti a credere a tutto e insieme a dubitare di tutto, a non credere più in niente. Così che proprio la nostra civiltà, fondata sull’immagine, proprio lei non crede a ciò che vede.

Ce ne accorgiamo a proposito degli orrori perpetrati dai guerriglieri di Hamas in Israele nei giorni scorsi: foto e video esibiti oppure appena appena censurati per pudore e per pietà, ma sui quali ancora molti gettano un velo di sospetto. Bastava guardare nell’ultima settimana uno dei tanti dibattiti serali in TV. È accaduto più o meno lo stesso qualche mese fa per gli orrori commessi dai russi a Bucha, in Ucraina, dove davanti all’evidenza delle immagini e delle parole dei pochissimi sopravvissuti non pochi hanno addirittura avanzato il sospetto che si trattasse in realtà di una sorta di servizio cinematografico montato per l’occasione.

Si direbbe, insomma, che la realtà non esista, che esistono solo le interpretazioni che ovviamente sono di parte, discusse e discutibili perché pesantemente influenzate dalle ideologie che si contendono il campo. È chiaro che questo continuo dubbioso mettere in forse ciò che accade si fonda principalmente sulla sensazione che proviamo spesso di essere oggetto di una manipolazione permanente da parte dei nuovi sofisticatissimi mezzi di comunicazione e dai potenti che li manovrano. Ma forse il fenomeno dipende però anche da qualcosa di più profondo. Dal fatto che non vogliamo vedere il male, abbiamo paura di farci coinvolgere nella sofferenza degli altri, vogliamo essere lasciati in pace a godere della nostra vita quotidiana di piccoli o grandi agi e piaceri. La nostra società rivela insomma una grande difficoltà a confrontarsi con il male. Il male, la crudeltà degli esseri umani, invece esiste: solo che a noi non piace vederlo. Preferiamo pensare che stiamo vivendo in un tempo di trionfo dei diritti umani - che si allargano sempre di più - e di iniziative umanitarie. Non vediamo infatti crescere in pochi giorni l’ammontare delle somme raccolte ogni volta dai media in occasione di disastri naturali o di sciagure provocate dagli esseri umani? Non vediamo forse scendere in piazza giovani e vecchi per difendere le donne violentate e uccise? Non siamo forse diventati tutti molto più sensibili e pronti a intervenire davanti ai casi di pedofilia?

Ma appunto perciò restiamo paralizzati davanti allo scatenarsi della violenza bestiale e non ci rendiamo neppure conto che così i migliori alleati dei carnefici, dei protagonisti dei genocidi, rischiano di essere proprio quelli che non ci vogliono credere. Rischiamo di essere noi. È proprio in tal modo, tra l’altro, che io credo che la pensino nel loro intimo i pacifisti: raffigurandosi cioè un’idea di natura umana sostanzialmente buona che mai e poi sarebbe capace di commettere i delitti di cui informano le cronache. All’opposto - piace loro credere - di quei cinici che invece cercano di portare l’attenzione del mondo a confrontarsi con il male, mentre è noto, essi non si stancano di ripetere che tutto si può risolvere con il dialogo. Dimenticando però che per dialogare bisogna essere in due, e in due ben disposti.

Qualcuno, forse Chesterton, ha detto che la più grande vittoria del diavolo è far credere che non esiste. Negare le atrocità, metterne in dubbio la realtà, appartiene esattamente a questo genere di rapporto diciamo così ottimistico, ma perversamente ottimistico, con il male. Che invece esiste e bisogna saper riconoscere, avendo il coraggio di guardarlo negli occhi.