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di Cataldo Intrieri

linkiesta.it, 23 agosto 2022

Nonostante abbia lasciato la toga da qualche anno, e sia di fatto l’autore del programma di politica giudiziaria del centrodestra (che non è molto liberale), avere in quel ruolo un ex magistrato, con tutto il suo passato di rapporti, amicizie e inimicizie, non sarebbe opportuno.

È stata la settimana delle liste e dei programmi elettorali: la stampa si è “appassionata” al primo aspetto giacché la riduzione del numero dei parlamentari ha creato una lotta senza esclusione di colpi in ogni partito.

Tuttavia anche sul fronte delle idee politiche che le coalizioni offrono all’elettorato non mancano elementi di interesse che possono aiutare a capire le differenze e le prospettive per il dopo-voto. Una delle novità più significative viene dai rispettivi piani sulla giustizia penale: ad esempio per la prima volta, dopo molto tempo e salvo colpi di scena dell’ultima ora (piuttosto improbabili), non ci saranno nelle liste magistrati in servizio.

Ad oggi le uniche toghe che hanno annunciato la loro candidatura sono quattro ex pubblici ministeri, felicemente ma non rassegnatamente pensionati: l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho, l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato (entrambi nei Cinquestelle), l’ex sostituto procuratore generale romano Simonetta Matone e l’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, in Fdi.

Se queste fossero le sole presenze “togate” ciò dimostrerebbe che la riforma dell’ordinamento giudiziario del governo Draghi sulle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica ha avuto un forte effetto.

Ponendo una serie di limiti al ritorno alla professione per chi viene eletto o che intenda solamente candidarsi, la legge firmata dal guardasigilli Marta Cartabia ha dissuaso i magistrati attivi dal diretto impegno politico, e ciò è certamente un segnale positivo per chi ha denunciato il rischio della strumentalizzazione dell’attività giudiziaria in funzione di una possibile candidatura politica.

Il secondo punto in comune che desta attenzione è il fatto che gli ex magistrati sono tutti ex pubblici ministeri e sono candidati nelle fila di partiti populisti. Ha sollevato polemiche il caso di Cafiero e Scarpinato perché entrambi sono passati direttamente dall’impegno sul campo a quello politico, essendo pensionati da pochi mesi - al pari peraltro di Matone, che si candida con la Lega - mentre Nordio aveva appeso la toga cinque anni fa.

Nel caso dei primi due ci si interroga fondatamente sulla vicinanza ideologica tra alcuni settori della magistratura e i Cinquestelle, già evidenziata ai tempi dei governi Conte della attuale legislatura. Nondimeno ha destato sorpresa la discesa in campo di Nordio nella formazione di Giorgia Meloni. Il magistrato veneziano aveva sempre tenuto ad accreditare un suo profilo di moderato liberale (tradito solo una volta alle elezioni del ‘76 allorché seguendo l’invito di Montanelli votò Democrazia Cristiana, come rivela nel suo libro “Giustizia ultimo atto”), del tutto lontano dai partiti, di esclusivo profilo tecnico e senza dubbi di parzialità (con l’eccezione, come sempre ricorda lui nel suo libro, delle polemiche suscitate dalla sua presenza a una cena in un ristorante romano dove insieme ad altri fu fotografato l’allora senatore Cesare Previti, all’epoca in cui egli, ancora magistrato, presiedeva una commissione ministeriale per la riforma del codice penale, durante il secondo governo Berlusconi).

Non sono polemiche meramente faziose: è opinione comune che il settore giustizia sarà ancora uno dei temi caldi della prossima legislatura, come lo è stato in quella che sta finendo. È in questa direzione che si sono sviluppati l’intervento di Silvio Berlusconi sul tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, il dettagliato programma di Azione ed Italia Viva, che pone il delicatissimo tema della separazione delle carriere tra pm e giudici nonché quello del ripristino della prescrizione soppressa da Bonafede in una delle poche (pessime) riforme che i populisti sono riusciti ad attuare.

Su questi punti i programmi della coalizione di destra e del Pd latitano, ci sono solo generici accenni, se non - come nel caso della sinistra - assoluto e ostile silenzio.

Chi ne scrive invece nel suo libro è Carlo Nordio, anzi si può ben dire che nell’ultima parte sia presentato il programma di politica giudiziaria del centro-destra (oltre ai famosi disegni di legge di riforma costituzionale di FdI mai abiurati da Meloni e di cui questo giornale ha scritto, su cui Nordio in una recente intervista a il Dubbio ha sorvolato).

Lo stesso neo-candidato ha motivato il proprio ingresso in politica nonostante lo avesse escluso più volte proprio perché era più opportuno poter applicare le sue idee esposte nel libro e nei numerosissimi editoriali su Il Gazzettino e Il Messagero. Ebbene, con un occhio di doverosa attenzione a ciò che Nordio scrive, essendo indicato come uno dei possibili futuri guardasigilli nel caso di governo di centro-destra, si può ben dire che il suo programma di riforma solo apparentemente ha tratti in comune con quello di Calenda e Renzi.

Quest’ultimo espressamente recepisce le osservazioni e le proposte dell’Unione delle camere penali italiane e, dunque, una visione espressamente garantista, mentre certi silenzi e dimenticanze di Nordio celano la feroce avversione di fondo di FdI a temi fondamentali come le condizioni carcerarie e la tutela dei diritti fondamentali delle minoranze.

Poi sul tema della separazione delle carriere ci sono diverse considerazioni. Prima di tutto bisogna capire cosa si intenda con questa formula. Nell’attuale ordinamento è già prevista una pressoché totale separazione delle funzioni di inquirente e giudicante, ma il punto cruciale è la reale divaricazione delle carriere, degli organi disciplinari e di assegnazione degli incarichi direttivi, funzione che oggi è affidata a un unico Consiglio Superiore della Magistratura, con tutti i rischi di commistione e condizionamento che la vicenda Palamara ha svelato.

Un progetto di legge redatto dalle camere penali, in particolare, suggerisce che, ferma restando la permanenza dei pm nell’ordinamento giudiziario, si debbano istituire due CSM dedicati a ciascuna funzione e totalmente autonomi l’uno dall’altro.

Al contrario, non si comprende invece quale sia il modello di separazione che hanno in testa i meloniani (il presunto garantismo di Berlusconi conterà nulla, diciamo la verità, pura testimonianza). Nordio, poi, non lo scrive, e sarebbe necessario, perché - è evidente - oltre alla proposta delle camere penali c’è solo un altro modello, quello che prevede la fuoriuscita dei pm dall’ordinamento giudiziario per sottoporli all’esecutivo. È il modello di stato autoritario che prevede il controllo del governo direttamente sulle procure e sulla polizia giudiziaria, con tutti i gravi rischi del caso.

Sarebbe necessario che Fdi esplicitasse cosa intenda davvero quando parla di “separazione delle carriere”. Nordio fa riferimento esclusivamente al modello anglosassone americano, in cui i public attorney sono sotto controllo dell’esecutivo. Un modello non consigliabile per l’Italia.

Ma non è il suo unico silenzio: altrettanto grave è quello sul carcere e sulla sua riforma, con cui si possa consentire l’espiazione delle pene con misure alternative, evitando la vergogna di condizioni disumane di detenzione. Anche qui, si tace perché non si vuole una riforma e non è questa l’idea di funzione della pena che piace a Meloni. Basta una rapida lettura delle sue pagine social per trovare i soliti sgangherati e sguaiati appelli al carcere, quelli contro le “folli sentenze” garantiste delle Corti europee e le affermazioni che presuppongono una politica discriminatoria verso le minoranze etniche e di genere.

Bisognerebbe che sul punto l’avvocatura italiana fosse netta: il garantismo non è un cavillo per vincere le cause, ma una visione politica rigorosa e irriducibile a tutela dei diritti dell’imputato. È di conseguenza inutile mercanteggiare con i partiti che la ripudiano. C’è poca chiarezza e molta timidezza sul punto anche dei vertici dell’Unione Camere Penali, ma i tempi attuali non suggeriscono mediocri furbizie ed ambiguità.

Personalmente auguro a Nordio le migliori fortune: è uomo colto, di vaste letture, penna fertile e fantasiosa come i suoi romanzi di fantasia testimoniano ma forse è opportuno stia lontano dal posto di Guardasigilli e faccia valere l’expertise professionale altrove, in una commissione e nei disegni di legge, dove potrà servire lo Stato senza tentazioni e compromessi di potere.

Nell’ultima sorprendente parte del suo libro racconta con grande efficacia i suoi difficili rapporti con certi settori della sua categoria ed in particolare con l’allora potente procura di Milano e alcuni suoi celebri esponenti che a suo dire, non proprio correttamente pubblicarono intercettazioni tra un indagato e un difensore che a lui facevano riferimento. Informa i lettori di custodire gelosamente alcune cordiali lettere dell’ex procuratore capo Borrelli, con cui ebbe modo di chiarirsi.

Con ripete spesso Giuliano Ferrara, in Italia una rivoluzione non è possibile perché ci conosciamo tutti. Ecco, i magistrati in particolare si conoscono benissimo tra di loro e come scrive Nordio non dimenticano, al massimo “fanno finta”, i torti subiti. Dunque non è il caso che si occupino di governare il paese né durante ma anche dopo la carriera, specie quando sia stata prestigiosa, carica di gloria e degna di ogni stima.