sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Viola Ardone

La Stampa, 19 ottobre 2023

Alla Buchmesse di Francoforte una scrittrice palestinese avrebbe dovuto ricevere il LiBeraturpreis 2023, un premio prestigioso assegnato ogni anno a scrittori e scrittrici provenienti da Africa, Asia, America Latina. Non sarà così, purtroppo. Adania Shibli non avrà il pubblico riconoscimento che ha meritato per il suo libro Un dettaglio minore per questioni di sicurezza e di opportunità, così comunica il comitato direttivo della Fiera, e per non esacerbare gli animi in un frangente così complicato, in cui le vite di israeliani e palestinesi sono quotidianamente sospese come “sugli alberi le foglie”, dopo l’odioso attacco terroristico di Hamas, la reazione impietosa di Netanyahu e l’allarme terrorismo che torna a terrorizzare il mondo. Non mi è difficile comprendere le motivazioni addotte, soprattutto quelle in merito alla sicurezza, eppure non posso nascondere un moto di profondo dispiacere per l’annullamento di una cerimonia di premiazione che poteva essere un’occasione di dialogo, di incontro, un ponte gettato tra pilastri di odio, perché questo è ciò che fa la scrittura. Se l’opera di Shibli era stata ritenuta meritevole prima del massacro del 7 ottobre ai danni di Israele è certamente perché non deve avere nulla a che fare con l’odio, con la violenza, con l’antisemitismo. L’arte, se è, non è mai partigiana, mai faziosa, non è un campo di battaglia. Altrimenti non è arte e non merita premi né in tempo di guerra né in tempo di pace.

La letteratura è il “dono del dio”, l’ultima disperata speranza conchiusa nel vaso di Pandora delle nostre fragili vite, e per questo andrebbe preservata, tenuta fuori dalle fazioni dell’odio e dalle dispute del potere, una piccola pace per tutte le nostre esistenze. Il conflitto in atto non può modificare il giudizio di valore su un’opera ritenuta meritevole di un riconoscimento internazionale e un premio letterario non può dipendere dalle visioni politiche né dal contingente. Se la letteratura ha dei doveri, li ha solo verso se stessa. In questi giorni di lutto per l’umanità mi sono rimessa a leggere, a scrivere, a studiare, ho tirato fuori i classici, le Storie di Erodoto e gli Annali di Tucidide, i versi dell’Iliade, tutti i libri di guerra e di pace che ho ritrovato nella mia libreria, ogni poesia che mi raccontasse che dopo la guerra c’è ancora vita e, anche se la vita e l’orrore troppo spesso coincidono, quel che prevale infine è l’umanità. Per secoli la letteratura è stata un antidoto alla disperazione, alla paura, al senso di impotenza e di inutilità verso le tragedie del vivere, e per me rimane l’unico modo che conosco per chiedere ragione a me stessa e al cielo delle morti innocenti e delle colpe mai abbastanza note.

“Àrma virùmque canò”. “Il pelìde Achille che infiniti addusse lutti agli Achei”. “Uomo del mio tempo / sei ancora quello della pietra e della fionda”. “Considerate se questo è un uomo / che muore per un sì o per un no”. “Sono un arabo / Ho un nome senza titoli / E resto paziente nella terra / la cui gente è irritata”. Omero, Virgilio, Quasimodo, Levi, Darwish. La letteratura ha certamente una storia, una geografia e una lingua ma non ha confini. Tutte le parole di pace fanno parte di un unico lunghissimo poema, quello dell’umano. Sarebbe bello se a Shibli si tributasse ugualmente il meritato encomio, nelle forme e nei modi che la situazione attuale consente, per non cadere di nuovo nei paradossi logici che hanno fatto bandire gli scrittori russi dopo l’invasione ai danni dell’Ucraina. Tutti i libri sulla guerra ci hanno insegnato a cercare un orizzonte oltre la guerra, quello che per un attimo il principe Andrej Bolkonskij vede mentre giace supino dopo essere stato colpito in battaglia, e si accorge per la prima volta del cielo sopra di sé: sereno, luminoso e spaventosamente sconfinato.