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di Ray Banhoff

L’Espresso, 2 luglio 2023

Clima e diritti civili funzionano e, almeno per brevi periodi, “bucano” l’attenzione. Le difficoltà economiche no. Perché l’imperativo sulle piattaforme è essere (o sembrare) i più fighi. Serve ancora a qualcosa manifestare in piazza? Fino a qualche decennio fa il mondo conosceva delle manifestazioni in grado di attirare l’attenzione dei governi e di influenzarne le scelte, oggi il tempo di vita di una notizia è molto più breve. Le piazze sono il luogo d’incontro di ambientalisti e cause civili. Ma precari, gente con stipendi troppo bassi, partite Iva, gente che non riesce a pagare le bollette… perché loro non manifestano? O meglio, perché le loro manifestazioni sono così meno rilevanti nel dibattito pubblico? Avete presente i ragazzi nelle tende di cui L’Espresso è stato tra i primi a parlare, alzando la voce contro il caro affitti? Sono già spariti dai radar dei media, nonostante le loro ragioni fossero più che legittime. Il motivo è sempre il solito: le notizie hanno una vita sempre più breve.

Ma c’è anche altro, a mio avviso. Attivisti del clima, sostenitori delle cause Lgbt+, dov’è che tutte queste persone che non si conoscono si incontrano e che queste cause diventano globali? Sui social network. Sui social tutto quello che ruota attorno alle lotte civili è trending topic (un argomento di tendenza visualizzato e condiviso da milioni di persone), ovvero funziona. Anche perché sulle piattaforme esprimere un’opinione sul cambiamento climatico o sui diritti civili è molto utile per dare agli altri una visione di noi, un posizionamento. La bandierina arcobaleno nella foto del profilo ci dice subito chi abbiamo davanti, ci fa capire in che cosa crede.

Guardiamo altre cause per cui potremmo strigliare i potenti o richiamare l’attenzione: la benzina troppo cara, le bollette troppo care, gli affitti troppo cari, gli stipendi troppo bassi, il precariato, la sanità che funziona male, la giustizia che è un casino. Certo, sono anche questi temi che interessano milioni di persone, ma non ce la vedo proprio la gente sui social a parlare di quanto è inguaiata e di come fa a campare finendo lo stipendio troppo in anticipo solo per pagare l’asilo dei figli e le bollette. Non è cool. C’è uno stigma rispetto alla povertà, che è la criptonite sociale per eccellenza.

La ricchezza è un top trend, non la povertà. Lo è almeno sulle maggiori piattaforme, dove vige un imperativo: essere i più fighi del mondo. C’è chi mostra le sue vacanze in barca, chi si licenzia dal lavoro castrante, c’è gente che fa yoga, ci sono motivatori, c’è cibo raffinato in posti esclusivi, ma non ci sono indebitati che sventolano ai quattro venti i loro guai. Ecco, mi immagino quanto repellente per le persone sarebbe vedere un loro amico che si dichiara povero, depresso perché non arriva alla fine del mese. Santo cielo, come quelle pubblicità di donazioni ai bambini poveri mandate strategicamente in onda all’ora di cena. Che cosa dovrebbero fare le persone, inviarti dei soldi? Invece, così come si fa outing sull’omosessualità o su qualche forma di intolleranza subita, dovremmo farlo anche sulla povertà.

Internet è la più grande invenzione del secolo scorso e, a oggi, è quasi interamente rimpinzata di stupida pornografia. Miliardi di terabyte di donnine nude, uno spreco enorme. I social network potevano essere la più grande piattaforma rivoluzionaria di sempre, al momento sono un palco per milioni di persone focalizzate solo su un obiettivo: diventare esse stesse un brand. Come direbbe Christian De Sica: “Ma che è ‘sta cafonata?”.