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di Nicoletta Tempera

Il Resto del Carlino, 28 febbraio 2024

Il 1° marzo nella Casa Circondariale di Fossombrone un detenuto discuterà la tesi. A presenziare il magnifico rettore dell’Università di Urbino, Giorgio Calcagnini. Sotto altri cieli entrare in carcere, specie se per reati gravi, è la morte civile. A volte ti tolgono anche il diritto di voto. Non così da noi: per precetto costituzionale. Ed è così che dentro a quelle mura ci si può anche laureare. Si chiama rieducazione, non a caso. Succederà venerdì 1° marzo alla casa circondariale di Fossombrone: un detenuto di cui per ora non possiamo dire il nome discuterà la sua tesi di fronte a una commissione presieduta dal Magnifico Rettore dell’Università di Urbino Giorgio Calcagnini. Ce lo racconta il professor Massimo Russo, che insegna “sociologia del tempo libero” all’Uniurb: “Entrato per la prima volta in carcere il 19 gennaio 2018 - ricorda Russo -, lo sguardo circospetto e qualche apprensione inquieta, timoroso di vedere la desolazione, mi sono ritrovato stupito osservatore e spettatore di un mondo e una realtà a me sconosciuti. Mi accompagnava la dottoressa Vittoria Terni De Gregory, che in veste di tutor mi chiedeva: “Come si sente? È la prima volta che visita un carcere?”.

Mi rassicurò la vista di un mastodontico gatto: Giotto placidamente se ne stava tranquillo al centro del corridoio. Negli anni, tra lezioni, seminari ed esami, in contatto con un mondo fuori del mondo, dall’alfabeto ai più incomprensibile e difficile da decifrare, ho imparato la sosta e il parlare lento, il fraseggio misurato, articolato con cura”.

La sessione di laurea: “Venerdì 1° marzo nella Casa Circondariale di Fossombrone parteciperò da commissario, in una commissione presieduta dal Magnifico Rettore Calcagnini, alla discussione di una tesi che corona l’impegno del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Urbino Carlo Bo, il quale, attivo dal 2015, ha laureato finora nove studenti. Negli anni ho svolto lezioni e seminari, nel carcere, di un insegnamento che desta ilarità: ha nome di “sociologia del tempo libero”. Abituato agli sguardi spocchiosi (“ci mancava solo la sociologa del tempo libero; si vede che all’Università hanno tempo da perdere...”, ho accolto con favore l’idea di riflettere sul tempo libero in carcere, cosa per i più contraddittoria e paradossale. Una bella soddisfazione aver fatto del tempo libero in carcere argomento di conversazione e riflessione, anche tra le guardie penitenziarie”. Un tempo sospeso da organizzare e riempire: “Il senso comune ritiene che in carcere si goda di molto tempo libero, ignorando di che tempo si tratta. Privati della libertà, limitati nella mobilità, il tempo ha altra fisionomia. Farsi carico del tempo, orientarlo e occuparlo in carcere diventa indispensabile. È grazie alle attività trattamentali che si scoprono le ricchezze interiori per orientarsi verso mondi altri. Nel carcere anche chi vi entra di passaggio legge il mondo attraverso la lente dell’inumano. Si vuole evitare la chiusura in sé, l’apatia, mentre la fantasia sogna la libertà e cerca una via di salvezza. In carcere, il tempo contratto, sospeso nel presente sconfinato, diventa spettrale, fa vagare nelle tenebre, nella vita nuda. Lontani dall’esterno, reclusi in uno spazio di costrizione, il pensiero rivede il vissuto e chiuse le porte, l’accadere, la quotidianità, rimane ignorato. Sospesi in una terra di nessuno salva l’attività culturale e ricreativa, quale valore aggiunto che recupera principi e riferimenti, per orientarsi e affrancarsi dal passato a cui si rimane intimamente legati”.