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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 22 dicembre 2023

L’avventura letteraria e umana del “Laboratorio di scrittura autobiografica” nell’istituto emiliano: un modo per far uscire dalle mura emozioni e sentimenti iniziando un percorso di recupero. Togliersi un peso significa stare meglio. E se a farlo sono i detenuti scrivendo ciò che per timore o vergogna avrebbero voluto tenere nelle segrete dell’anima, l’effetto catartico è evidente. Il progetto si chiama “Genitori comunque” e da tre anni coinvolge alcuni reclusi della Casa circondariale delle Novate di Piacenza: chi vuole racconta, scrivendola, la propria esperienza di padre e di figlio condividendo il testo con i compagni e gli educatori del gruppo.

Un modo per “liberarsi dentro” oltre che per imparare l’italiano, visto che più dei due terzi dei circa 400 ristretti qui sono stranieri. L’avventura letteraria e umana del “Laboratorio di scrittura autobiografica” nel carcere emiliano è iniziata nel 2020, quando la pandemia ancora costringeva a portare la mascherina: nel nuovo padiglione del penitenziario, dentro uno stanzone con le pareti bianche e gialle e le finestre aperte per far entrare il sole di primavera, si ritrovarono sei persone recluse e due conduttori esterni che, stimolati da brani di poeti, narratori e cantautori del nostro tempo, dalla Szymborska a McCormack, da Alda Merini a Lucio Dalla, misero nero su bianco pezzi della propria vita familiare quasi sempre lacerata e sofferta, spesso combattuta o dimenticata: dieci minuti, e non di più, con una penna in mano e un foglio sul tavolo, in un silenzio assoluto, assai raro in un carcere dove si urla e risuonano rumori di chiavistelli e ferri che sbattono.

Il lavoro, portato avanti dall’associazione “Verso Itaca-Itinerari di giustizia” con la collaborazione dell’Azienda municipalizzata che gestisce i servizi sociali (attraverso l’impegno diretto, anche come volontario, del dirigente Brunello Buonocore) è proseguito per altri sei pomeriggi e si è ripetuto con successo negli anni seguenti. La direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, ci ha creduto sin dall’inizio e l’ha consentita e sostenuta, aprendo il portone dell’istituto di pena a scuole e realtà sociali per farla conoscere alla comunità cittadina.

Alcuni brevi testi, vere confessioni a cuore aperto, sono stati pubblicati in tre quaderni, uno per ogni anno di esperienza: un altro modo per fare uscire dalle mura delle Novate emozioni e stati d’animo che i “liberi” spesso ignorano o faticano a capire. C’è il dolore dei figli offesi e mortificati come Pietro C.: “Ho avuto un’infanzia difficile, mio padre maltrattava mia madre: quando beveva diventava violento anche con me e i miei tre fratelli.

Non ci ha mai fatto mancare nulla, ci manteneva in tutto per tutto, ma lo faceva a modo suo, con violenze, insulti, botte. Mi è mancato il suo amore”. C’è il pentimento e la voglia di riscatto di padri egoisti come Roberto D.: “Con uno dei miei due figli, che oggi ha 19 anni, da quando ne aveva due non mi sono mai fatto sentire. Pensavo solo a bere, ai soldi, ai locali notturni. E me ne vergogno. Mi sento un papà fallito ma adesso voglio rimediare”.

Ma ci sono anche l’orgoglio e la tenerezza di Toni M.: “Mio figlio è nato che io ero dentro da una settimana ma quando mia moglie mi viene a trovare, con lui in braccio che mi chiama papà, mi vengono i brividi”. Padri indifferenti e figli feriti, come racconta Giovanni: “Mio padre, nota dolente della mia infanzia. Un ricordo di lui ce l’ho: sul divano mentre dorme dalle 15.30 alle 18.

Dopo di che il nulla, praticamente non c’era mai. Passano gli anni, divento un giovanotto della Versilia by night. Incomincio a capire chi era quest’uomo dal quale non avrei dovuto prendere esempio, semmai distanza”. “Per i detenuti la scrittura autobiografica - spiega Carla Chiappini, anima e motore di questo e di altri progetti che ha portato anche nelle carceri di Parma, Verona, Milano Opera, Catanzaro e Palermo Ucciardone - è un incontro finalmente libero da maschere, paure, calcoli e ritrosie, suscita dubbi e domande.

Ma è un lavoro da fare tutti insieme, non rinchiusi in cella e con l’apporto di persone esterne: l’obiettivo immediato è quello di mettere in comune le singole esperienze”. A Piacenza, in questo contesto, si è affrontato anche il tema “le mie radici sono”: “L’ascolto è fondamentale, ma ci vuole tempo per ottenere la reciproca fiducia - sostiene Chiappini - e infatti strada facendo il gruppo si assottiglia, c’è chi lascia perché non se la sente e chi rimane capisce che scrivere è un modo per avere cura di sé e scoprire qualcosa che non era ancora venuto fuori, percepisce questa attività come un bisogno”. Si scrive nel dolore, si raccolgono lacrime.

“Ma si riflette anche - aggiunge - però guai a giudicare o interpretare, bisogna ascoltare e basta e farsi venire i dubbi, se necessario: lo scritto è sacro”. Poi racconta il caso di un detenuto del carcere di alta sicurezza di Catanzaro che dopo tre incontri in cui ha lasciato il foglio in bianco, preso dallo sconforto è andato in cella e ha scritto una lettera al figlio morto in una rapina: “Avrei voluto essere una persona diversa, non un modello per te. Finalmente posso dirti queste cose senza far finta, mi sono liberato di un peso”.

Spesso i pensieri messi sulla carta vengono letti dai detenuti ai loro familiari e con essi discussi. E i benefici dietro le sbarre si vedono. “Ma nessun miracolo - precisa Chiappini si tratta sempre di storie complesse che possono diventare però un passaggio importante del percorso di rieducazione: noi non facciamo altro che dissodare un terreno per renderlo fertile”.

Chi partecipa una prima volta al laboratorio poi chiede di tornare. “Significa che qualcosa nel loro cuore si è smosso, ma spesso non c’è il tempo per continuare perché nelle case circondariali come Piacenza, i detenuti entrano ed escono in continuazione”. Insomma, scrivere la propria biografia non è intrattenimento e nemmeno uno dei tanti modi per far passare l’interminabile tempo dietro le sbarre. “Sono da considerarsi alla stregua dei corsi di formazione - dice Chiappini - si tratta di incontri umani autentici, una sfida per tutti”.