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di Micaela Ghisoni

piacenzasera.it, 18 novembre 2022

“Ho fatto dodici anni di reparto e ora sono dal 2008 in portineria. Mi trovo bene, ma a volte vorrei sigillare quella porta perché entrano ed escono migliaia di persone. E poi sarebbe bello avere maggior dialogo con gli educatori, gli psicologi e gli psichiatri… Se fossi in loro mi metterei di più nei panni di chi lavora all’interno. È un pezzo che viene a mancare per avere un quadro definito della persona ristretta”.

A parlare è Gian Franco, assistente capo coordinatore da 23 anni a San Vittore, in un frammento di intervista rilasciata in carcere ad una delle biografe volontarie formate alla Lua (Libera Università dell’Autobiografia). La sua è una delle tante storie di vita raccolte tra operatori e detenuti della casa circondariale milanese, nel tentativo di restituire il volto più umano del carcere. “Un invito a raccontarsi e a raccontare un mondo che parla a ciascuno di noi - ha spiegato Carla Chiappini, Presidente dell’associazione “Verso Itaca APS” e biografa volontaria -, al nostro lato più dolente, più oscuro, più fragile”.

Le parole non bastano però a mostrare il carcere come luogo di incontro tra le diverse esperienze di vita di una variegata umanità, che in un dato periodo storico si trova a vivere in uno stesso luogo. ”Il carcere a Milano è San Vittore - dice infatti Giacinto Siciliano, attuale direttore del penitenziario e altra voce intervistata che alla realtà carceraria ha dedicato l’esistenza -. Lo capisci solo quando ci metti i piedi dentro”. L’occasione migliore per farlo, soprattutto per chi vive fuori da quelle mura, è allora senza dubbio la mostra ‘San Vittore quartiere della città’, fino al 10 dicembre allestita nello Spazio espositivo della Fondazione di Piacenza e Vigevano grazie all’associazione “Verso Itaca APS”.

L’esposizione, da Milano arrivata anche a Piacenza e inaugurata lo scorso 7 novembre a Palazzo Rota Pisaroni, pone in dialogo gli scatti fotografici di Margherita Lazzati con stralci di interviste raccolte tra detenuti, operatori, volontari e tutti coloro che per scelta civile o spirituale sono ‘abitanti’ di San Vittore. A Piacenza l’iniziativa ha il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano e il patrocinio della Casa Circondariale di Piacenza, del Comune e della Camera Penale.

In un intenso percorso dove immagini e parole si arricchiscono reciprocamente le testimonianze scritte sui pannelli (oltre sessanta le interviste registrate, raccolte, sbobinate e poi sintetizzate rivolte a detenuti, operatori penitenziari, volontari, avvocati, medici, insegnanti, garanti e assistenti spirituali) accompagnano le foto, mentre nei luoghi immortalati dall’obiettivo di Margherita Lazzati risuonano emozionanti i loro echi.

Dall’antica lanterna al panopticon circolare da cui si biforcano i raggi, dai cortili interni alle celle le immagini di Lazzati raccontano “degli spazi fisici, obbligati che le persone vivono”; fino allo “skyline della Milano nuova”, che colloca il carcere nel cuore della città proprio mentre al centro della città si svelano “luoghi inconsapevolmente sconosciuti”. La stessa fotografa spiega che “detenuti, polizia penitenziaria, operatori e volontari non compaiono per rispetto nelle immagini, ma sono i veri protagonisti di questi luoghi”.

Volontaria dal 2011 nella Casa di reclusione di Opera presso il laboratorio di lettura e scrittura creativa e dal 2016 fotografa di detenuti e volontari impegnati in questa attività, la sensibilità artistica di Lazzati e la sua approfondita conoscenza della realtà detentiva fanno la differenza.

“Adoro fare ritratti per dare voce a chi non ce l’ha - osserva quindi l’artista - ma ho scelto solo luoghi e niente volti per una meta di passaggio come San Vittore: Casa circondariale dopo la quale alcuni saranno assolti e altri condannati. Prediligo sempre le fotografie in bianco e nero perché storicizzano, in particolare in carcere dove la realtà’ è in tutte le sfumature del grigio. Ho lasciato a colori la cella delle donne e pochi altri scatti per attualizzare”.

“Non a caso - continua - la mostra è stata esposta per la prima volta, fra il gennaio e il febbraio del 2020, nel IV Raggio di San Vittore, quello storicamente più doloroso: riservato durante la guerra ad ebrei e detenuti politici. Ma la mia è narrazione per immagini, non un reportage di denuncia: la presa di coscienza deve sorgere in chi legge e guarda le fotografie, come quella della cella per le mamme che tengono con sé il loro bambino”.

Protagonisti degli ‘orizzonti ristretti’ che la delicatezza di Margherita Lazzati racconta, gli abitanti di San Vittore con le loro voci si sentono negli spazi narrati: tra solitudini e momenti di incontro si scoprono storie d’infanzia comuni di lavoratori del penitenziario e detenuti, mentre la fragile umanità del carcere prende forma.

La voglia di riscatto sociale prende vita nelle parole del giovane detenuto Otmam, che ha capito di aver ‘fatto una cavolata’ e in futuro vorrebbe trovare ‘un lavoro onesto’, per aiutare la famiglia che avrà e soprattutto sua madre. “Posso anche stare in mezzo alla strada - dice - ma se lei è lì (in una casa, ndr) io sono tranquillissimo”. Il dolore poi è quello di Marco, che ricorda così l’ingresso a San Vittore: “la mia vita in un sacco nero; questa è l’immagine indelebile che porto con me”. Queste storie, queste vite ‘camminano’ negli spazi del carcere milanese, per dirci che anche a San Vittore la vita non smette mai di scorrere, nonostante tutto.