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di Bianca Burgo

Vanity Fair, 1 marzo 2023

Una biblioteca, uno spettacolo teatrale, un laboratorio musicale e un progetto di scrittura creativa. I detenuti di Piazza Armerina stanno seguendo un percorso di rieducazione, e ora ci mandano un messaggio importante: in Sicilia c’è un carcere in cui è concessa un’”evasione legale”. A base di arte e cultura.

Una luce tremula proviene da una finestra in una casa lontana. La osservo intere ore fantasticando che, al suo interno, il calore di una famiglia unita scaldi i cuori di tutti. Immagino una moglie premurosa che con amore prepara la cena. Riesco a sentire nei miei pensieri le voci dei bambini che giocano, gioiosi di una vita serena. Io non avrò mai niente di tutto questo”. Alessandro spia la felicità altrui attraverso le sbarre di una cella in cui ha passato metà della sua vita. In cui si è abituato, scrive in questa lettera indirizzata al mondo fuori, “a muoversi in piccoli spazi angusti, al ronzio assordante di voci sconosciute, al rumore dei cancelli che si chiudono alle spalle”.

I cancelli sono quelli della Casa circondariale di Piazza Armerina, piccola realtà virtuosa sperduta nella campagna di Enna, dove i circa 80 detenuti sono invitati a intraprendere un percorso di rieducazione. L’invito arriva direttamente da Antonio Gelardi, fino allo scorso dicembre direttore del carcere, e dall’operatrice culturale Samantha Intelisano: insieme hanno preso un “non-luogo”, dove i detenuti si limitavano a scontare la pena senza prospettive per il futuro, e l’hanno trasformato in un centro di speranza.

L’avventura è partita nel 2019. Seduto sulla sedia a rotelle in cui è costretto da una rara malattia genetica, Gelardi racconta: “Dirigevo il carcere di Augusta, un carcere grande, che conta 5-600 detenuti e stavo per andare in pensione quando è arrivata la proposta di cambiare sede. L’ho accettata, nonostante la fatica che la mia malattia mi procura, e i 146 chilometri che separano casa mia da Piazza Armerina. All’inizio venivo qui solo due giorni alla settimana; dallo scoppio della pandemia, ho aumentato a tre, per stare più vicino ai detenuti”.

Con loro, e grazie all’aiuto di Intelisano, ha attuato una vera e propria rivoluzione. Sono partiti dalla costruzione di una biblioteca, per poi aggiungere un corso di teatro, uno di musica, un percorso psicologico e uno “sfogo” di scrittura creativa. “La biblioteca è quel luogo che contiene tutte le parole che vorremmo dire”, racconta Intelisano che, trascorrendo molto tempo con i detenuti, ha cominciato a pensare a un modo per permettere loro di esprimersi. Insieme hanno selezionato monologhi, dialoghi, brani e poesie. Poi, hanno iniziato a leggerli a voce alta, a progettare una sequenza drammaturgica, a disegnare dei cartelloni che fungessero da scenografia. Il titolo dello spettacolo teatrale che stava nascendo è stato tratto proprio dalla frase stampata su un cartello: “Non guardateci così”, appello universale a essere guardati, almeno una volta nella vita, come Alessandro guarda la finestrella illuminata. Con amore.

Le prove sono iniziate lo scorso settembre: per tre mesi i detenuti si sono messi in gioco con grande impegno. La mattina uscivano dalle loro celle carichi: alcuni orgogliosi di essere riusciti a imparare a memoria il testo, altri entusiasti, pieni di idee da proporre. La mise en scène, che è durata due giorni, il 21 e il 23 novembre 2022, è stata pensata come un incontro, un’occasione per l’istituto di aprire le porte a un piccolo gruppo di ospiti esterni, accompagnati tra celle, cancelli e corridoi dalla recitazione dei detenuti. Camminando, sentivano declamare i testi scelti, tra brani di Italo Calvino e poesie di Erri De Luca, con gli echi che si sovrapponevano alle immagini, le azioni agli oggetti scenici, le parole urlate da lontano a quelle sussurrate come confessioni.

“Dolore nostro - umano. / Voi non sapete come / certe notti ce ne stiamo / schiacciati sotto un peso / che non si vede / e uno scuro, un buio enorme / preme, e allora siamo, il rifiuto / l’animale zoppo che ha davanti la fine”: riecheggia, tra le sbarre, la poesia Caino di Mariangela Gualtieri, primo brano a essere scelto per questo spettacolo che, dopo tanto tempo, ha regalato, a Ciccia, Babba, Piero, Carmelo, Salvo, Damiano e a tutti coloro che vi hanno preso parte, qualche minuto in cui non sentirsi animali zoppi.

C’è poi chi, invece, si è riscattato nella sala di incisione del carcere: spazio coordinato dal musicoterapeuta Roberto Mistretta in cui i detenuti hanno potuto scoprire, o riscoprire, la passione per la musica. Tra loro, Raffa, che da bambino si esibiva alle feste dei parenti e sognava una carriera da cantante. La vita, però, l’ha trascinato altrove: prima alla guida di un camion poi, per colpa di “un unico e solo maledetto sbaglio”, qua dentro dove, scrive in una lettera, “la notte diventa più fredda e ancora più buia e speri di fare un sogno che ti porti lontano dalla realtà”.

Quando ho cominciato a frequentare Piazza Armerina per realizzare gli scatti che vedete in queste pagine avevo paura. Paura di non essere presa sul serio come fotografa, paura di come si sarebbero comportati i detenuti con me, paura dei loro reati. In realtà, avevo paura semplicemente perché di loro non sapevo niente. È stato facile, invece, scoprire che sono persone come noi. Partendo da questa riflessione, dopo le prove teatrali, ho proposto una nuova attività. Un’”evasione legale”, l’abbiamo chiamata: i detenuti, o meglio i ragazzi, potevano scrivere una lettera aperta al mondo di fuori, per raccontare il mondo lì dentro. Ne sono usciti pezzi della loro storia impressi su carta, confessioni di peccatori pentiti e autoassoluzioni, aforismi e invocazioni a Dio, attestati di speranza e dichiarazioni d’amore alla vita.

Damiano scrive dal suo cubo di cemento, cella 8, braccio sinistro, primo piano, e lancia un appello ai giovani che stanno “là fuori”: “Sta a voi scegliere se vivere in un mondo colorato e animato o rimanere al buio, soli, lontani e isolati. Pensateci bene e non fate gli errori che ho fatto io. Perché la vita va vissuta e non sprecata”. Anthony si cimenta con la poesia: “Il tempo non vola / volano le rondini / e i pensieri nel cielo”. Peppe, con le dichiarazioni d’amore in dialetto: “Sì, so geloso. E ‘sti mura ca ta tengono luntano a me ma nun sanno ca ti amo cchiù ‘e me”. Alessandro, mentre osserva la finestrella illuminata, si abbandona ai rimpianti: “Io che ogni errore l’ho pagato caro e non sono mai stato perdonato, se solo ti saresti accorto di me e mi tendevi una mano, non ti avrei deluso. E, forse, mi sarei salvato”.