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di Claudio Mazzone

Corriere della Sera, 17 gennaio 2023

Il primo laureato del Polo Universitario penitenziario della Federico II è tra i 700 detenuti semiliberi che godevano di licenza straordinaria Covid: ma il governo Meloni non l’ha prorogata: “Mi sento come la vittima di un accanimento terapeutico”.

“Mi trovo proprio vicino al carcere, sto per rientrare”. Sono le 20 e la voce di Pierdonato Zito, che arriva con un vocale su Whatsapp, è quella di chi non riesce a liberarsi da un passato pesante. Quella di un 63enne che ha trascorso più 30 anni da detenuto, di cui 8 al 41-bis. Quella di un uomo cambiato che è stato, nell’ottobre scorso, il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università “Federico II”, ottenendo anche la lode. Eppure Pierdonato dal 30 dicembre è tornato a dormire in carcere perché è tra i 700 detenuti semiliberi che godevano di licenza straordinaria Covid; licenza che, dopo due anni e mezzo di misura alternativa, il governo Meloni non ha prorogato.

Come si sente a dover tornare in carcere la notte?

“Come una persona che è guarita ma non viene dimessa dall’ospedale, sono vittima di un accanimento terapeutico. La mia storia è l’eterno ritorno dell’identico perché è come se fossi uscito da un labirinto per entrare in un altro ugualmente ingarbugliato. La mia vicenda assomiglia alla fatica di Sisifo, condannato in eterno a spingere un enorme masso fino alla cima della montagna per poi lasciarlo rotolare a valle e tornare a portarlo su fino in cima. Sono entrato per la prima volta in carcere nel 1980. Sono trascorsi 42 anni e sto ancora cercando disperatamente di liberarmi ma non ci riesco, la mia storia resta ancorata al passato. Eppure da allora sono cambiato nel fisico, nella visione della vita ma purtroppo cambiare non basta”.

Cosa serve allora?

“Devi avere anche la fortuna di trovare chi nel tuo cambiamento ci vuole credere. A nulla o a poco vale cambiare se tutto, intorno a te, resta uguale e immobile”.

A cosa si riferisce?

“È il sistema che non prende atto del mio cambiamento. Io ho ridefinito la mia esistenza, da oltre 20 anni non sono più iscritto nel registro degli indagati, le procure non si interessano più di me, e questa è la prova documentale che non possono rappresentare una pericolosità sociale perché manca il requisito dell’attualità. Purtroppo però la mia storia processuale è parte di un passato che non mi appartiene più ma che cristallizza il mio presente”.

Cosa rappresenta la sua laurea?

“È una prova documentale del cambiamento di Pierdonato Zito detenuto. Ma il nostro sistema giudiziario fa fatica a riconoscerlo e questo vanifica gli sforzi e rende impossibile che un detenuto cambi davvero. Basti pensare che il dato della recidiva nei penitenziari italiani è all’amante, per una media del 70%, il che significa che il trattamento carcerario non funziona e quella volta che invece dà frutti, come nel mio caso, le istituzioni non lo riconoscono anzi. Il giorno della mia proclamazione, ad esempio, ero rientrato a casa da detenuto ma anche da dottore in Sociologia. Alle 3 di notte i carabinieri sono venuti a casa per un controllo. Questo mi ha fatto capire che dal carcere e dal mio passato rischio di non liberarmi mai”.

Eppure lì ha trasformato la sua storia personale in una questione collettiva.

“Si. Ho fatto della mia esperienza, della mia conoscenza ultratentennale dell’universo carcerario, delle dinamiche di come si entra e di come si può uscire dal carcere, una storia da condividere. Attraverso l’analisi sociologica, grazie agli strumenti che la Federico II mi ha dato e alle lenti con cui l’Università e lo studio mi ha fatto guardare il mio mondo, ho trasformato il mio vissuto in uno strumento per fare prevenzione, per aiutare i giovani a non sbagliare. E infatti sono stato nelle scuole per parlare con gli studenti, per raccontare la mia storia e per fornirgli uno strumento di prevenzione”.

Come valuta la scelta del governo Meloni di non prorogare la licenza eccezionale?

“È un errore, perché lo Stato ha investito nella nostra rieducazione ma poi non ci permette di tornare liberi. È un aspetto paradossale e contraddittorio del sistema penitenziario italiano ed è una criticità concreta dell’intero sistema giudiziario che ci ripropone una situazione kafkiana”.

In che senso?

“In questi due anni i detenuti in semilibertà non hanno dato alcun motivo di allarme sociale. Al contrario, hanno dato segno di maturità, e di essere protagonisti di percorsi positivi. La mia storia è un esempio di un percorso trattamentale che ha funzionato perché ha avuto come fondamento l’idea che la finalità della pena deve recuperare il detenuto. Purtroppo però nella maggior parte delle strutture non funziona così. Eppure ci sono sistemi diversi e possibili che applicano i principi indicati dalla nostra Costituzione a partire dal ruolo del penitenziario che deve essere quello di responsabilizzare il detenuto e non di infatilizzarlo”.