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di Pino Corrias

Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2022

Omicidio Calabresi: 50 anni dopo non serve il patibolo, ma sta a lui tornare e raccontare. Per mettere fine alle trappole di menzogna, di connivenza e di finto garantismo che il suo silenzio e quello di troppi altri hanno innescato.

A far data dall’omicidio Calabresi, 17 maggio 1972, sono passati giusto cinquant’anni, cioè almeno tre se non addirittura quattro generazioni di inconsapevoli ragazzi che nulla sanno di quella che chiamammo la “Rivoluzione delle aspettative crescenti”. Bisognerebbe chiuderla, prima o poi, quella coda fiammante che manda ancora - a intermittenza, stavolta da Parigi dove dieci ex militanti si sono imprigionati al loro passato - il fumo e le ceneri di quel che accadde in Italia in quegli anni.

E delle conseguenze per prima cosa sgocciolate nel sangue delle vittime - 350 morti, mille feriti dal 1969 al 1982, 5 mila incarcerati, altrettanti inquisiti - poi nelle lacrime dei familiari che restavano, in quelle dei colpevoli divisi tra irriducibili, dissociati, pentiti, quindi nelle paranoie di chi scappava per dieci anni, vent’anni, trent’anni. E infine nella comoda furbizia di chi la sfangava senza troppi danni, o addirittura nessuno, rimanendo dov’era, passando da capo politico a editore, da responsabile del Servizio d’Ordine a senatore, da ideologo a professore universitario, direttore di giornale, o persino titolare di discoteche, come capitò a certi peggiori che militavano tra i katanghesi di Milano.

Ho conosciuto parecchi soldati e avventurieri della lotta armata. Dai brigatisti del nucleo storico, agli epigoni senza storia delle ultime Brigate rosse, sciocchi fino alla crudeltà. Ho ascoltato il dolore delle loro vittime, per esempio quello del figlio di Torreggiani, il gioielliere ucciso dai Proletari armati per il comunismo, anno 1979. Ho registrato e raccontato le piccole ragioni e i grandi torti dei renitenti al rendiconto, come capitò a Toni Negri, che pure preparava il suo ritorno in Italia, destinazione, Rebibbia, espatriati a Parigi, in Nicaragua, Brasile, Africa. I quali la buttavano in politica fin che potevano, come ha fatto Cesare Battisti, arrivato fino in Bolivia con il suo filo di menzogne, per poi ammettere le colpe e le ragioni della propria storia, appena catturato e solo all’ultimo chiedere scusa.

Sarebbe ora che un tipo come Giorgio Pietrostefani, 79 anni, da una ventina latitante a Parigi, tornasse non tanto per espiare la sua condanna a 22 anni di carcere, non lo vuole neppure la vedova del commissario Calabresi, non lo vuole il figlio, ma per chiudere il cerchio di quel pezzo della nostra storia - che fu disastrosamente generazionale, ma ancora per un po’ patrimonio e insegnamento per tutti - prima che a farlo sia la dimenticanza collettiva tramite il malanno e l’anagrafe. L’esatto contrario di quel che auspica Paolo Mieli nel suo Terapia dell’oblio che vale nell’ambito dei sentimenti, forse, un po’ meno in quello storico. E il conto su quegli anni non lo può chiudere solo la verità formale, già accertata nei processi, nella collettiva ricostruzione degli eventi. Ma in quella sostanziale, raccontata dai singoli che ne furono artefici, con tutti i furori di allora a illuminare le storte ragioni che da un momento all’altro potrebbero tornarci tra i piedi, resuscitate dalle crescenti diseguaglianze sociali che prosperano nel nulla delle nostre periferie, nel nulla della nostra politica.

Sarebbe utile per chiuderla finalmente quella storia. Per misurare il riverbero di quel sovversivismo che alla fine della Prima Repubblica si voltò, saldandosi persino con il nuovo radicalismo della destra che ha alimentato negli anni del trionfante berlusconismo, l’insofferenza alla legalità e l’odio per la magistratura, travestito dal garantismo delle élite per le élite.

Non servono patiboli o gogne, non interessano abiure se non alla destra rancorosa che lucra qualche consenso sfruttando le salme sepolte dal terrorismo (senza mai interrogarsi sul proprio piombo), ma solo quel piccolo canestro di parole da offrire alla giustizia riparativa, la sola che possa rammendare lo strappo e il danno di quegli anni, parlandone.

Dico Pietrostefani perché stava al vertice di Lotta Continua tanto quanto Adriano Sofri - l’altro condannato per quell’omicidio. Salvo che Sofri ha scontato i suoi anni a seguire senza mai alzarsi dai 7 processi e dalle infinite revisioni, accettando le sentenze senza ammettere mai la colpa e tuttavia scontandola in carcere e in questa sua lunga libertà vigilata in proprio: impossibile per lui ammettere alcunché, oggi o domani, dopo quel milione di parole speso per difendersi dalla sua ombra che ha finito per coincidere con la sua vita.

Dico Pietrostefani - non Marino, non Bompressi, esecutori ma in fin dei conti comprimari - che invece ha ancora molto da spendere, vista la quantità di silenzio che in questo doppio decennio parigino passato a vendere e affittare case, ha accumulato a debito. Potrebbe sorprendersi e sorprenderci: alzarsi, tornare e prendere la parola. Dirci quello che pensava allora e quello che ne pensa oggi di quella esecuzione, la prima nell’Italia repubblicana, preparata e condotta alla maniera dei gappisti che praticavano con altre ragioni l’omicidio politico, confondendo gli anni dell’occupazione nazifascista, con quelli della Strategia della tensione che tramava appena sotto la superficie del brodo democristiano. Come nacque quella bolla spazio temporale. Quanti svagati o ipocriti la assecondarono, sganciandosi per tempo, dopo una firma, una petizione che impegnava la vita altrui, senza scalfire la propria.

E potrebbe essere un uomo ragionevole come Luigi Manconi, ieri al vertice di Lotta Continua, spalla a spalla con Pietrostefani, oggi teorico della giustizia riparativa, ad accompagnare quel ritorno, parlandoci anche del suo.

Molti ne sono usciti dignitosamente, con dissociazioni utili a sé stessi e agli altri. Tanti, se la sono data a gambe nella nebbia, proprio come capitò nel Dopoguerra a migliaia di magistrati, professori universitari, funzionari dello Stato, dell’esercito e delle forze dell’ordine. Per non dire dei doppiogiochisti passati direttamente dalle camere di tortura dell’Ovra ai nostri Servizi segreti, senza cambiare scrivania e dossier. Con tutti i danni a seguire transitati dalla grande storia a quella piccolissima, ma cruciale, dei parigini renitenti.