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di Mario Di Vito

Il Manifesto, 8 agosto 2023

Possibilità estesa e reati meno gravi dell’associazione criminale, basterà la contestazione del metodo mafioso. Garantisti spiazzati. Era la metà di giugno quando il ministro della Giustizia Carlo Nordio giurava e spergiurava, l’ultima volta, che il governo avrebbe messo mano alle intercettazioni per limitarne l’uso, definendole addirittura “una barbarie che costa 200 milioni all’anno per raggiungere risultati minimi”. Domani l’ultimo consiglio dei ministri prima delle vacanze estive approverà però una norma che consentirà alle procure di intercettare molto più di quanto si possa fare già adesso.

È questa la sostanza dell’annunciato intervento “salva processi di mafia” emerso come problema capitale lo scorso 17 luglio, quando Giorgia Meloni in persona se la prese con una sentenza di Cassazione che restringeva il concetto di criminalità organizzata ai soli reati associativi, negando l’uso delle intercettazioni negli altri casi. E allora, dopo un lungo ragionare (il decreto doveva arrivare in Consiglio dei ministri già giovedì scorso), si è deciso di non avventurarsi nel terreno scivoloso della dottrina ma di estendere gli strumenti investigativi come le intercettazioni a un ventaglio più ampio di situazioni: il terrorismo, il sequestro di persona a scopo di estorsione, il traffico illecito di rifiuti e le aggravanti mafiose, queste ultime oggetto proprio della sentenza adocchiata da Meloni e ritenuta potenzialmente responsabile di indicibili disastri processuali. Sarà modificato l’articolo 13 della legge 152 del 1991, aumentando le possibilità di ricorrere al regime di deroga stabilendo requisiti meno stringenti per autorizzare le attività di ascolto, a valere anche per i processi e le indagini già in corso. Si afferma così ciò che la Cassazione aveva escluso: chi è accusato di un reato comune aggravato dal metodo mafioso potrà essere trattato nello stesso modo di chi è accusato di un reato di mafia.

La questione, in ogni caso, non è affrontata di petto, ma viene lavorata ai fianchi. Nessuna norma di definizione autentica della nozione di criminalità organizzata a partire da un presupposto tutto da verificare, ma l’estensione dei meccanismi propri della lotta al crimine organizzato ad altri reati. In pratica, aumentano di molto le possibilità inquisitorie degli investigatori, cosa che, peraltro, ha anche un non trascurabile peso costituzionale: la Consulta si è occupata in più occasioni di bilanciare l’avanzamento delle tecniche di intercettazione con le necessarie garanzie di libertà e segretezza delle comunicazioni.

Un’altra novità sulle intercettazioni contenuta nel decreto che verrà licenziato domani riguarda la futura istituzione di un archivio centralizzato per custodire i dati raccolti dalle varie procure. Un provvedimento che avrebbe un impatto considerevole sul lavoro dei pubblici ministeri ma che ancora è tutto da costruire: prima serviranno i pareri del Csm, del garante della privacy e del comitato interministeriale per la cybersicurezza, poi bisognerà mettere a punto i server e infine gestire la migrazione dei dati già esistenti, operazione che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe avvenire sotto l’attenta supervisione della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati della giustizia. L’eventuale arrivo di queste “infrastrutture digitali interdistrettuali” sarebbe un modo per provare a recuperare sulle arretratezze tecnologiche della giustizia italiana e per risolvere l’annoso problema della custodia delle intercettazioni e dei dati sensibili, argomento di gran moda in questi giorni con l’inchiesta della procura di Perugia sui presunti dossieraggi ai danni di politici e vip.

Il tema, però, non è nuovo. Oltre alle innumerevoli polemiche che si trascinano in avanti da anni, appena due settimane fa, in commissione giustizia, la senatrice Erika Stefani della Lega chiedeva “una riflessione sui protocolli per la certificazione delle aziende che operano le intercettazioni su mandato delle procure”, materia al momento poco o nulla regolamentata. Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, le aziende italiane che si occupano di questo sono 148, con un fatturato totale di 275 milioni di euro per circa 200mila interventi annui. Una quantità abnorme di informazioni personali che spesso non ha rilevanza ai fini delle indagini e che non si sa bene come venga custodita.