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di Sara Scarafia

La Repubblica, 8 dicembre 2023

I due giornalisti Lirio Abbate e Giuliano Foschini ragionano sulla condizione femminile dentro la criminalità organizzata. Il ruolo delle mogli è tutt’altro che secondario. Patriarcato e mafia: cosa succede alle donne che vivono nei territori dove la presenza della criminalità è ancora fortissima? Chi sono le donne che vivono con i clan? L’editorialista Lirio Abbate e l’inviato Giuliano Foschini provano a rispondere ad Arena Repubblica e Robinson. “Le donne dei clan non compaiono mai - dice Abbate - ma è davvero così?”. Abbate racconta che le donne di mafia si occupano della famiglia, gestiscono la cassa, spesso danno indicazioni agli uomini su strategie da portare avanti. “Ma gli uomini fanno i conti con la vergogna e non diranno mai che quell’idea viene da una femmina. Ma la donna ha un passo più avanti e gli uomini hanno paura di loro, paura che possano tradire le cosche. La verità è che la donna che collabora con la giustizia ha il potere di scardinare le cosche”.

“Nella mafia barese che ha una struttura nata in carcere - dice Foschini - le donne portavano avanti i clan. A Bari recentemente è venuta fuori la storia di una famiglia di usurai che aveva una struttura gerarchica tutta femminile”. Foschini racconta la storia di Rosa Di Fiore, la prima pentita della mafia garganica, l’unica mafia che non ha pentiti. A San Nicandro Garganico c’erano due clan, i Tarantino e i Ciavarella, che nel corso degli anni avevano avuto faide tremende. In dieci anni erano state uccise 36 persone. Tutto era cominciato per un furto di bestiame poi diventato traffico di stupefacenti.

“Rosa era figlia di un’insegnante. Si innamora di un Tarantino che entra e esce dal carcere. Fanno due figli. Tarantino era amico di uno dei Ciavarella. Non potevano farsi vedere insieme in paese ma si frequentavano e le famiglie si conoscevano. Rosa si innamora di Ciavarella. Hanno una storia. Ma la cosa si viene a sapere e quando Tarantino esce dal carcere, Rosa è incinta dell’amante. I Tarantino decidono di lavare l’onta riprendendo la faida che si era sopita”. Rosa viene segregata in casa, ha il suo bambino che le viene tolto. Ed è allora che lei decide: “Ci ha raccontato di aver capito che i fratelli, i suoi figli, si sarebbero uccisi tra di loro perché di padri rivali. Rosa scappa, si pente e fa arrestare il marito e il nuovo compagno. Solo la forza di una madre poteva guidarla”.

E se la condanna a morte di Omar Trotta, un ragazzo di 28 anni che era destinato a essere ucciso perché aveva fregato i compagni di clan di Vieste, viene firmata dalla moglie che gli vieta di collaborare con la giustizia anche quando il procuratore di Bari gli dice che sta per essere ucciso, cosa che accadrà 19 ore dopo il suo no, qualcosa di simile accade al sicario dei Graviano Gaspare Spatuzza, come racconta Abbate. “Quando nel 1995 viene arrestato, il magistrato gli chiede di collaborare e lui chiede di parlare con la moglie: la signora arriva in tribunale. Spatuzza è seduto sulla sedia davanti al magistrato. Lei lo guarda con la sua borsa firmata e i gioielli e gli chiede cosa stesse facendo. Poi chiude la porta e se ne va e lui decide di non collaborare”.

Ruoli attivi, certo. Ma le donne in terre di mafia sono anche vittime. “In Calabria, per esempio, in alcune zone, se una donna decideva di separarsi dal marito veniva uccisa inscenando un suicidio. Un problema sociale di comunità pervase dall’idea patriarcale e mafiosa”. Ma quindi qual è il ruolo delle donne? “Centrale - dicono Abbate e Foschini - ma hanno anche subito. Molte sono riuscite a ribellarsi, a denunciare e a decidere le sorti di una cosca”. La mafia, conclude Abbate, è un termine al femminile.