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di Chiara Nardinocchi

La Repubblica, 4 febbraio 2024

La mancanza di una definizione univoca e le carenze delle raccolte dati dei singoli Stati ostacolano la corretta definizione del fenomeno e la sua reale portata. Parlare di femminicidio in Europa è come cercare di comporre un puzzle usando pezzi di grandezze e forme diverse, alcuni sono andati persi, altri invece fanno parte di altre scatole. L’immagine che ne emerge è quindi incompleta e disomogena. Questo perché ogni paese ha una sua definizione di “femminicidio”, pochi lo riconoscono come reato o aggravante nel proprio sistema giuridico e pochissimi hanno una raccolta dati efficiente. Una serie di mancanze che complicano ancora di più non solo l’applicazione di misure a contrasto della violenza di genere, ma anche la capacità di capirne l’efficacia laddove sono state implementate.

Al momento in Europa solo Cipro, Malta e Belgio riconoscono il femminicidio come reato a sé stante. La Croazia invece ha presentato al parlamento le modifiche al codice penale e alla legge sulla protezione dalla violenza domestica che prevedono tra l’altro l’omicidio aggravato di una donna. Diversi i paesi, tra questi anche l’Italia fanno rientrare il femminicidio all’interno del reato di omicidio seppur con aggravanti relative a legami di parentela, violenze sessuali e altri delitti che variano in base al paese.

“Il femminicidio - afferma l’avvocata Teresa Manente, Responsabile ufficio legale di Differenza Donna - coinvolge un genere nei confronti dell’altro e pone questioni di spessore teorico e di difficile qualificazione giuridica aprendo la discussione sul diritto penale della differenza. È questa la ragione per cui la parola femminicidio, seppur diffusa come rappresentativa della violenza di genere contro le donne, non trova specifico riconoscimento normativo nonostante la sua presenza in atti istituzionali europei e stia entrando gradualmente sempre più anche nel linguaggio dell’autorità giudiziaria italiana come dimostrano numerose sentenze della Corte di Cassazione”.

La mancanza di una definizione condivisa e di una norma univoca è tra gli ostacoli che rendono la raccolta dati discontinua e frammentaria. A questa vanno aggiunti anche sistemi di registrazione incompleti e disomogenei, carenza di uno standard per la raccolta dati e fonti spesso prive delle competenze necessarie. Tutto ciò si traduce in una carenza allarmante di alcune informazioni fondamentali che rischiano di falsare la rappresentazione del fenomeno e la sua portata. “Quando mancano informazioni fondamentali - sottolinea Cristina Fabre Rosell, team leader ed esperta di raccolta dati sulla violenza di genere dell’European institute for gender equality (Eige) - è difficile stabilire se è il delitto ha una matrice “di genere”, ma capirlo è fondamentale per esempio ai fini della prevenzione. La mancanza di informazioni porta alla sotto-rappresentazione degli omicidi da parte del partner, ma anche a rendere invisibili altri tipi di femminicidio”.

Leggi e raccolta dati sono ad appannaggio dei singoli stati, risentono quindi del clima interno, del momento politico e delle diverse sensibilità. La Spagna, che dal 2004 ha adottato un testo unico contro la violenza di genere, è il paese che raccoglie e condivide il maggior numero di informazioni rendendo più agile definire, in tutta la sua complessità, una panoramica della violenza di genere nel paese.

L’ultimo report con dati omogenei europei è stato rilasciato dall’Eige ed è fermo al 2018. Più aggiornati invece sono le stime Eurostat che disaggrega gli omicidi volontari solo in base al sesso della vittima e al legame di parentela con l’autore del delitto (partner o familiare), escludendo di fatto tutti gli altri femminicidi. Guardando questi dataset raccolti spesso in modo discontinuo, a livello europeo, dal 2015 al 2021, i femminicidi commessi dal partner o familiari sono diminuiti dello 0,03% ogni 100.00 abitanti: Ungheria, Liechtstein e Cipro i paesi con la diminuzione più marcata, mentre Lettonia, Islanda e Austria quelli che negli ultimi sei anni hanno visto aumentare i delitti tra congiunti. Diversa la panoramica se si prendono in considerazione i femminicidi commessi esclusivamente dal partner di cui si hanno dati dal 2008 al 2021 (spesso incompleti o discontinui per diversi stati): a spiccare in questo caso è la riduzione di femminicidi a Malta, Ungheria e Finlandia, mentre peggiorano Grecia, Lettonia e Irlanda del nord.

Le differenze tra paesi ostacolano la reale quantificazione e comprensione del fenomeno a livello europeo. “Le politiche dei singoli Stati in Europa possono influenzare o ostacolare in modo significativo la raccolta di dati - continua Cristina Fabre Rosell - L’impatto varia a seconda della volontà politica, dell’impegno per l’uguaglianza di genere e della priorità data alla lotta contro la violenza contro le donne. [...]Il quadro giuridico di uno Stato membro determina il modo in cui la violenza di genere e i femminicidi sono definiti, classificati e segnalati. Le posizioni politiche e le decisioni relative all’allocazione del budget e alla distribuzione delle risorse hanno un impatto sulla capacità delle forze dell’ordine, dei sistemi sanitari e di altre istituzioni di raccogliere e gestire i dati sui femminicidi”.

Leggi e dati si intrecciano in modo indissolubile. “Ricordo - conclude l’avvocata Manente - che la Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2013 impone agli Stati non solo di dotarsi di una legislazione efficace, ma anche di adottare politiche pubbliche orientate alla conoscenza puntuale delle cause strutturali del fenomeno della violenza contro le donne, nonché garantire l’effettivo accesso alla giustizia che oggi è ancora ostacolato dalla permanenza si stereotipi e pregiudizi sessisti [...] È necessaria una normativa unitaria e omogenea dotata della prospettiva di genere relativa ai fenomeni criminali che ledono i diritti umani delle donne e che preveda una cooperazione stretta con le organizzazioni della società civile impegnate nella prevenzione della violenza nei confronti delle donne”.