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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 9 luglio 2023

Dal salva-ladri alle toghe rosse. Quegli intrecci e conflitti (sempre uguali a sé stessi). Ha detto di recente il ministro Carlo Nordio che il conflitto tra politica e giustizia fu avviato dalla Procura di Milano con l’invito a presentarsi nelle vesti di indagato recapitato “a mezzo stampa” all’allora premier Silvio Berlusconi, nel novembre 1994. In realtà, quello stesso anno, proprio il governo Berlusconi aveva già provato - in piena estate - a depotenziare le indagini e il potere dei magistrati con il decreto ribattezzato “salva-ladri”, ritirato a seguito delle dimissioni in diretta tv dei pubblici ministeri di Mani Pulite. E l’anno precedente un altro governo, guidato da Giuliano Amato, fu stoppato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro nel tentativo di depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti, dopo le proteste del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli.

Il pool - Quell’esecutivo era stato decimato dalle dimissioni a catena dei ministri colpiti dagli avvisi di garanzia e quello successivo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nacque azzoppato dopo che le Camere avevano respinto a scrutinio segreto le richieste di autorizzazione a procedere contro il segretario del Psi Bettino Craxi. Seguirono proteste di popolo, a cui la gioventù missina in cui già militava Giorgia Meloni diede il suo contributo stringendo in simbolico assedio il palazzo di Montecitorio sotto lo slogan “Arrendetevi, siete circondati”, e la successiva abolizione dell’autorizzazione a procedere. Poi nel ‘94, al momento di formare il suo primo governo composto anche da eredi del Movimento sociale italiano, Berlusconi tentò di arruolare come ministri due pm simbolo di quella stagione giudiziaria, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, con la mediazione di Cesare Previti e Ignazio La Russa. I due declinarono l’invito, ma successivamente Di Pietro fu arruolato come ministro da Romano Prodi, entrò in Parlamento e fondò addirittura un suo partito.

Gli anni Novanta - Sono alcune scene tratte dall’ultimo decennio del secolo scorso per documentare come lo scontro - ma anche l’incontro - tra politica e giustizia si ripete ciclicamente da più di trent’anni, in forme spesso simili e in alcuni casi con gli stessi attori. Con età, responsabilità e posizioni diverse, ma identici nomi e cognomi. Del resto, se c’è uno che ha beneficiato della rivoluzione giudiziaria del 1992-93 per poi venirne inghiottito, è proprio Berlusconi. A dimostrazione che l’intreccio tra destini politici e azioni (o reazioni) della magistratura può avere esiti altalenanti e imprevedibili. Per chiunque.

La bicamerale - Quando a palazzo Chigi salì Massimo D’Alema, la commissione bicamerale per le riforme istituzionali stava marciando diritta verso la separazione delle carriere tra pm e giudici, stoppata dall’opposizione dell’Associazione magistrati (sotto la protezione istituzionale del presidente Scalfaro) prima ancora che dalla decisione del leader di Forza Italia di tirarsene fuori. Poi quando Berlusconi tornò al potere si aprì la stagione delle leggi ad personam per indirizzare i processi a favore del premier-imputato, con il conseguente compattamento delle toghe, di tutte le correnti e di tutti i colori, a difesa dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione, messa sotto attacco da governo e Parlamento. Un po’ quello che è successo (in piccolo) ad aprile, quando il ministro Nordio ha avviato l’azione disciplinare contro tre giudici di Milano “colpevoli” di aver messo agli arresti domiciliari il russo ricercato dagli Usa in attesa di estradizione e fuggito per tornare in patria; un’iniziativa politica per addossare al potere giudiziario la responsabilità di una crisi diplomatica.

Il conflitto continuo - Ma pure nell’ultimo decennio, con il fondatore di Forza Italia non più al centro della scena (anche per via della decadenza da senatore seguita alla condanna definitiva del 2013), il conflitto tra potere esecutivo e legislativo da un lato e giudiziario dall’altro, s’è riproposto a fasi alterne. Un po’ per l’uso strumentale delle vicende giudiziarie o para-giudiziarie da parte della politica, e un po’ per i ricorrenti tentativi di condizionare indagini e processi attraverso riforme che dovevano porre rimedio a iniziative della magistratura ritenute condizionanti della politica e del funzionamento della democrazia. Perché l’uso e l’abuso politico e mediatico di certe inchieste e sentenze (indagini all’apparenza infondate o stravaganti, condanne destinate a ribaltarsi in assoluzioni e viceversa) non ha portato al più mite consiglio di evitare strumentalizzazioni e conclusioni affrettate (come le richieste di dimissioni per un avviso di garanzia o un verdetto non definitivo), bensì al ricorrente tentativo di imbrigliare la magistratura e i suoi rappresentanti. Basti pensare a Matteo Renzi, che prima di diventare “garantista” e autodefinirsi vittima designata delle “toghe rosse” invocava defenestrazioni di questo o quel ministro proprio a partire dalle loro disavventure para-giudiziarie; e s’è ritrovato un paio di suoi deputati di fiducia nei conciliaboli paralleli e clandestini per decidere le nomine al di fuori del Consiglio superiore della magistratura.

Oggi il governo Meloni, con due magistrati seduti in altrettanti posti-chiave (oltre al ministro Nordio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, virtuoso esempio di “porte girevoli” tra potere politico e giudiziario, se quella pratica non fosse additata come perniciosa), si sente accerchiato dalle toghe sospettate di fare opposizione politica, anziché amministrare giustizia. Immaginando chissà quali complotti e strategie comuni tra Procure e tribunali diversi.

In questo clima sono state proposte riforme che, se pure avessero un fondamento, nascono inevitabilmente sotto la cattiva stella della vendetta o del “fallo di reazione”. Provocando ancora una volta le proteste della magistratura, alle quali la politica reagisce con il consueto richiamo alla separazione dei poteri (che nessuno mette in dubbio, ma non importa). Forse confidando che tra le toghe qualcuno cominci a stancarsi e cedere, dopo trent’anni e più di conflitti sempre uguali a se stessi. O quasi.