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di Carlo Bonini

La Repubblica, 18 gennaio 2024

Con la foga dell’angelo vendicatore e una narrazione intrisa di risentimento ideologico, il ministro della Giustizia Nordio, a nome del governo e della sua maggioranza, annuncia al Parlamento il progetto di definitivo scasso di uno dei principi cardine della nostra giurisdizione (la sua unicità) e la resa del sistema penale al veleno della nostra democrazia: la corruzione e gli altri reati contro la pubblica amministrazione. Per farlo, tratteggia un quadro della nostra amministrazione della giustizia deformato da un’idea paranoide. In cui i pubblici ministeri sono monadi feroci che frugano nella vita degli individui e delle loro comunicazioni, privando presunti innocenti della loro dignità, privacy e libertà, “senza rispondere a nessuno” e in forza di “poteri incompatibili con la struttura costituzionale”.

Per giunta, attentando alle prerogative della politica, e dunque della sovranità popolare, in un contesto che non lo giustificherebbe. Perché - sentite un po’ - l’indice di corruzione delle Nazioni Unite che vede il nostro Paese tra i più aggrediti “è basato su parametri errati”, confondendo “la corruzione reale con quella percepita”.

Un’enormità di cui si potrebbe sorridere se non fosse stata pronunciata in Parlamento da un ministro della Giustizia, ma da un simpatico buontempone in un bar dopo aver alzato un po’ troppo il gomito. Al diavolo, dunque, gli strumenti di indagine più invasivi sulla corruzione. Al diavolo una disciplina della prescrizione che non si risolva in garanzia di impunità. Al diavolo l’abuso di ufficio, con buona pace di quel che dicono le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la nostra Autorità nazionale anticorruzione. E al diavolo, complessivamente, i reati contro la pubblica amministrazione, perché “obsoleti” (sic). Soprattutto, “avanti spediti con la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero”.

Con una promessa che ha il suono della minaccia. Poiché, perché la riforma sia tale, il governo - avvisa il ministro - dovrà modificare la Costituzione. Si potrebbe pensare di essere di fronte a una lisa riedizione delle parole d’ordine del ventennio berlusconiano. Ma, in realtà, poiché la storia non si ripete mai uguale a se stessa, c’è qualcosa di più e di diverso in questo assalto alla giustizia penale. Camuffato goffamente da Nordio con un richiamo strabico al garantismo dei sistemi accusatori di common law (Stati Uniti e Regno Unito) e - addirittura - a Voltaire e Beccaria, c’è infatti un nuovo populismo penale che, muovendo da premesse classiste, immagina un Paese diviso a metà.

Quello della “gente per bene”, dei colletti bianchi, della borghesia delle professioni, della politica e del mondo dell’impresa, cui deve essere assicurata un’azione penale disarmata. E quello che la destra di governo ha invece deciso di perseguire moltiplicando le figure di reato, sfregiando la giustizia minorile, abbandonando a se stesse carceri che oggi scoppiano di detenuti per reati contro la persona, contro il patrimonio, o per stupefacenti.

E dove ogni cinque giorni si conta un suicidio. Insomma, un’idea odiosa della società e del principio di uguaglianza di fronte alla legge che si fa politica criminale riportando l’orologio della giustizia penale del nostro Paese agli anni 50. Un Paese dove i signori Verdini, padre e figlio, meritano di poter trafficare con gli appalti dell’Anas senza che quale sciocco pubblico ministero ne violenti la privacy con intercettazioni telefoniche, ma dove è bene che si intercetti e vada in galera chi minaccia la quiete pubblica e la proprietà altrui organizzando rave party o blocchi stradali.

Dove un sottosegretario alla Giustizia come Delmastro, rinviato a giudizio per violazione del segreto di ufficio e ospite d’onore di una festa di Capodanno con pistola che spara, è ancora al suo posto. E dove alla stampa viene messo il bavaglio con norme liberticide che reintroducono il divieto di pubblicazione di atti giudiziari non più coperti dal segreto di indagine. È la conferma, ammesso ce ne fosse bisogno, della macroscopica eccezione che è oggi l’Italia governata da questa destra. Un’eccezione che ci allontana dall’Europa e che ci costerà diversi miliardi di Pnrr, perché proprio la riforma della giustizia - penale e civile - era stato uno dei banchi di prova su cui l’Europa ci aveva chiamato a misurarci. Un’eccezione - dice bene l’ex ministro della Giustizia Pd Andrea Orlando - dove “il problema non sono i ladri, ma le guardie” e il principio di legalità è a geometria variabile.

Come dimostrano i 17 provvedimenti di sanatoria e condono varati in appena un anno di legislatura e una narrazione che vuole i reati contro la trasparenza e imparzialità della pubblica amministrazione una pietra al collo degli spiriti liberi dell’impresa e del mercato. Andranno fino in fondo. E non perché lo dica Nordio, che è semplice ventriloquo controllato da remoto dagli azionisti della maggioranza. Ma perché è su questo scempio della giustizia penale che chiamano riforma che le tre anime della maggioranza hanno trovato una delle loro stanze di compensazione.

Con il volenteroso contributo di qualche spregiudicato cicisbeo nell’opposizione. Che poi tutto questo spettacolo si consumi nel giorno in cui l’ormai ex candidato di Salvini alle Regionali in Sardegna subisce un sequestro di beni perché indagato per corruzione è naturalmente un ironico inciampo del caso. Anzi no, pardon. Nell’Italia della corruzione percepita, è “giustizia a orologeria”.