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di Mario Marazziti

L’Unità, 3 gennaio 2024

Il presidente Mattarella ha rivolto agli italiani e alla nostra classe dirigente un messaggio di fine anno denso, profondo, forse il più bello dall’inizio dei suoi mandati. Pace e cultura della pace, il monito sulle armi, la responsabilità dei governi di fronte al global warming, una prospettiva esistenziale per i giovani, ancorata nel mondo reale, per resistere alle sirene digitali che si sostituiscono alle relazioni umane, e per resistere al richiamo della violenza: l’inveramento della Costituzione, mai come adesso bussola per il rispetto della dignità umana e l’accesso ai diritti. Con un paio di occhiali offerto a tutti, contenuto nella parola “riconoscere”.

Riconoscere i diritti delle persone, che ne sono depositarie prima e indipendentemente dagli stati e dai poteri: e questo contiene un’idea di stato amico, di istituzioni che dialogano con i cittadini per capirli e “riconoscere” la loro dignità, che non respingono, impegnate nella riduzione delle disuguaglianze: un’alternativa alla “cultura dello scarto” - parole di Papa Francesco - per cui alcuni sono esseri umani e altri no.

Proprio per “riconoscere” e diventare capaci di riconoscere i diritti umani, che precedono quelli di cittadinanza e quelli civili, sempre più esposti al rischio di essere ristretti a pochi: chi ha esiste, gli altri diventano invisibili - quelli che hanno, invece di quelli che non hanno, e quindi nemmeno “sono”. Un obbligo per quelli che gestiscono potere e hanno ruoli pubblici. I commenti al discorso di Mattarella sono ovunque, ma vorrei soffermarmi solo su una reazione, quella della presidente del Consiglio, che ha sottolineato come vi sia consonanza piena su “sanità e lavoro”: coerentemente, non una parola sui diritti.

Non è casuale, infatti, che il 29 dicembre anche un semplice ordine del giorno che avrebbe impegnato il governo all’ovvio, per i fondi delle missioni internazionali come in Libia, cioè a monitorare e tracciare l’uso dei fondi erogati e il rispetto dei diritti umani da parte dei paesi che li ricevono, è stato bypassato.

Era l’appello che abbiamo lanciato da l’Unità, e che è stato raccolto e presentato da Ciani (Demos, PD), Onori (M5S), Fratoianni e Bonelli (Verdi e Sinistra): il governo e la maggioranza non vogliono tutelare i diritti umani di chi è detenuto in Libia, né impegnarsi a chiedere trasparenza nell’uso dei fondi erogati.

Ma anche sulla sanità le parole del capo del governo non sono vere. Le leggi di bilancio dicono meglio delle parole dove “batte il cuore”: “prima gli italiani che se lo possono permettere”, sì. Gli altri non entrano nemmeno nel numero. Per la sanità pubblica universalistica, essere curati e vivere bene è un diritto indipendente dai cambi di governo e da quanti soldi si hanno. Ma l’accesso alla sanità pubblica è diventato sempre più difficile, silenziosamente si lesina su esami e farmaci, man mano che cresce l’età, incoraggiati da circolari economiciste e da cattiva cultura. Anche i farmaci antivirali - che pure ci sono - spesso non vengono prescritti alle persone a rischio, per patologie ed età.

Non sappiamo più i numeri veri dei morti da Covid-19, perché registrati sotto altre cause, tra le “morti con Covid”. Una politica del minimo produce danni durante una pandemia ancora vigorosa associata al picco del virus influenzale: fa vittime, anche se non si sanno e sembra che non ce ne siano. Norme “svuota-pronto soccorso” permettono di inviare i pazienti direttamente presso alcune strutture private convenzionate per acuti, al prezzo dei posti letto per acuti, dando la facoltà di “sforare” il tetto pattuito delle convenzioni con la sanità pubblica.

Con “provvedimenti per il popolo” si aumentano i soldi che si danno alla sanità privata, e crescono i costi stessi. Siccome la coperta è quella, restano meno soldi per altri comparti sanitari. La legge di bilancio non copre per la sanità nemmeno i costi dell’inflazione; non programma il rafforzamento della rete di medicina di base: nel 2030 dovrebbero esserci 23.000 posti di medici di base scoperti. La cosa riguarderà 1 un italiano su 2. Non si programma il rafforzamento delle professionalità nei pronto soccorso, né della rete nazionale di specialisti necessari, a partire dai pediatri, già insufficienti in un paese, l’Italia, dove di bambini ne nascono davvero pochissimi. Lo stesso vale per gli infermieri, e non si prevede neppure una corsia di buon senso per il riconoscimento e l’aggiornamento dei titoli degli infermieri che hanno conseguito il titolo all’estero peruviani, filippini già in Italia, e altri che verrebbero volentieri.

Ma c’è un caso eclatante, che la presidente dovrebbe capire bene, perché è stata, purtroppo, colpita da “vertigine parossistica”, giramenti di testa e nausea “per colpa degli otoliti”. È una condizione invalidante, doppiamente fastidiosa per chi viene da una vita piena di impegni, volitiva. E merita simpatia e comprensione. Significa che non si riesce, finché dura, a fare quasi niente da soli, anche le funzioni ordinarie, gira tutto, e tutto, per un po’, diventa complicato.

È una non autosufficienza temporanea. È un’esperienza istruttiva, che aiuta a mettersi nei panni degli altri: è quello con cui centinaia di migliaia, milioni di persone anziane convivono: il bisogno di aiuto. Non serve l’ospedale, ma qualcuno che aiuti in casa: l’assistenza domiciliare, un caregiver. L’epidemiologia è precisa in proposito: la solitudine è una grande concausa di morte. Non solo per motivi psicologici, perché favorisce depressione e abbandono. Ma anche perché diventa un moltiplicatore quando ci sono altre patologie croniche, anche se non letali.

Da soli il rischio di morire, anche senza una malattia grave, raddoppia. A Roma il 40 per cento degli ultraottantenni vive solo. E gli anziani in Italia sono 14 milioni, quasi un quarto degli italiani. Tutte le famiglie sono coinvolte, in qualche modo. L’85 per cento dei decessi per coronavirus ha riguardato persone con più di settant’anni, quelle sopra gli ottanta sono il 56%. Ma otto volte su dieci il bisogno che porta in ospedale - quando si è soli - è sociale, non sanitario, non c’è bisogno di un ospedale specializzato, di un posto-letto. Per gli anziani soli e quelli con poche reti sociali l’istituzionalizzazione è diventata la normalità. Ma c’è un grande MA, che deve fare riflettere e agire diversamente.

Nei luoghi di ricovero, R.S.A., istituti, case di riposo, nursing homes, nella prima ondata di Covid-19, quella dei camion militari con le bare da Bergamo, almeno il 42 per cento di tutte le vittime sono state in luoghi di cura, anche se ci vivono solo 3 anziani su 100. Ci sono studi europei che hanno registrato quasi il 60 per cento di tutte le vittime della pandemia nei luoghi di ricovero. E altrettanto negli Stati Uniti e in Canada. Cioè: la casa ha protetto almeno 15 volte di più delle R.S.A e degli istituti, di qualunque tipo, anche senza aiuti e sostegni speciali. È un luogo terapeutico - totalmente sottoutilizzato - che con aiuti specifici può offrire risposte a un gran numero di persone, a costi molto contenuti, e con un vantaggio nella qualità della vita e nella coesione sociale di grande impatto.

Non c’è stata una lobby potente che facesse camminare in fretta questa integrazione di modello. Ma c’è stata lo stesso negli ultimissimi anni, una “svolta storica”, definita tale dal governo Meloni, quando il 26 gennaio 2023 ha approvato la Legge Delega per la condizione anziana e la non autosufficienza, che è stata il risultato del lavoro straordinario fatto dal 2020 dalla cosiddetta commissione Paglia. È stata costruita, fino a diventare uno dei grandi progetti trasmessi dal Governo Draghi all’attuale, una “rivoluzione copernicana”, basata proprio sulla casa come luogo terapeutico, fondata sulla medicina di prossimità, con un finanziamento iniziale quantificato - prima volta nella storia - di 4,5 miliardi di euro: per avviare un ripensamento dell’assistenza agli anziani non autosufficienti attraverso un continuum di servizi personalizzati, l’integrazione dei servizi sociali e sanitari, l’assistenza domiciliare integrata, il ruolo delle comunità, senza sradicamento e con grandi risparmi di scala. Ci sono stati nove mesi per metterla a punto.

Ci sono voluti quasi venti anni per trovare ascolto, dalla nascita nel 2004 del programma sperimentale Viva gli Anziani, creato dalla Comunità di Sant’Egidio assieme a eccellenze universitarie, che è oggi entrato nelle 50 best practices dell’Onu per il sostegno all’invecchiamento attivo (anche anziani che aiutano altri anziani) e il contrasto della non autosufficienza. MA la legge di Bilancio non ha messo un euro per finanziare quello che per nove mesi il governo ha sbandierato come propria scelta.

Paolo Ciani, nella dichiarazione di voto alla Camera il 28 dicembre, sconsolato, ha registrato che per gli anziani, per questa legge che esiste e che è una conquista di civiltà, lo stanziamento è stato zero: “Se non c’è una norma pubblica, se non c’è una norma dello Stato che si interessa dei nostri anziani, chi potrà, avrà risposte, chi non potrà, morirà in solitudine”. Tutto qua.

Al governo Meloni e alla maggioranza che in Parlamento ha votato per non finanziare la Legge delega per gli anziani e i non autosufficienti (189 contro 121) l’interesse per la salute e la vita di chi invecchia e ha bisogno di aiuto ad oggi è zero. Come i soldi stanziati. Ci sono tre mesi, prima che tutto decada, per finanziare la Legge Delega. Eppure la presidente del Consiglio dovrebbe capire meglio di che si tratta, dopo questi giorni di fastidiosa, temporanea, invalidità.

Può ancora porvi rimedio. Prima che non resti a una gran parte di italiani l’unica prospettiva di vivere male gli ultimi anni, e di morire peggio. Magari in un istituto rifinanziato senza battere ciglio e senza tanti controlli con i soldi di una sanità impoverita e, così, sempre più insostenibile in un paese che invecchia prima e più degli altri.