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di Marina Piccone

L’Osservatore Romano, 23 agosto 2023

La cooperativa “Le Lazzarelle” valorizza saperi antichi e genera inclusione. Il caffè artigianale, secondo la tradizione napoletana, proveniente dal commercio equo e solidale. E fin qui tutto normale. L’eccezionalità è data dal fatto che questo caffè si produce all’interno del carcere femminile di Pozzuoli a opera della cooperativa “Le Lazzarelle”, un’impresa di sole donne che valorizza i saperi antichi e genera inclusione sociale.

La cooperativa è nata nel 2010, quando Imma Carpiniello, Paola Pizzo e Francesca Cocco hanno deciso di realizzare una torrefazione in una vecchia mensa della casa circondariale femminile, loro che, fino ad allora, il caffè l’avevano solo bevuto. “Abbiamo cominciato a studiare”, racconta Carpiniello, presidente della cooperativa, una laurea in Scienze politiche e un master in tutela dei diritti umani. “Ci siamo fatte formare da un vecchio mastro torrefattore. All’inizio non è stato facile, abbiamo bruciato tantissimo caffè”.

Le detenute sono parte attiva del processo produttivo. “Tutta la progettazione è stata fatta insieme a loro, dal colore del logo al nome della cooperativa. È uno degli aspetti qualificanti del nostro lavoro”, sottolinea. Nel corso di questi tredici anni, sono state ottantaquattro le donne coinvolte nel progetto, tutte contrattualizzate e con un regolare stipendio, un altro impegno preciso delle fondatrici. “Molte di loro, prima di lavorare con noi, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Con noi imparano un mestiere ma, soprattutto, acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro potenzialità”.

Il carcere femminile di Pozzuoli è il secondo in Italia per numero di detenute ospitate. A fronte di una capienza di novantotto persone, sono presenti 152 donne, di cui venti straniere (fonte Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 aprile 2023). Lo scorso anno ci sono stati trentotto casi di autolesionismo e più della metà fa uso di sedativi o ipnotici. Un mondo complesso. “È più sfaccettato rispetto a quello maschile”, spiega Carpiniello.

“Le donne entrano in carcere non necessariamente perché hanno commesso un reato ma perché, magari, si sono trovate coinvolte in una retata o tirate dentro dai loro compagni. Sono spesso vittime di violenza fisica o psicologica e, a volte, hanno un destino tracciato. Lontane dalla scuola, senza un lavoro, rimangono incinte a sedici anni, come la loro mamma e la loro nonna”. La presenza di un figlio è una doppia sofferenza.

“Una pena accessoria. I bambini vengono affidati o ai genitori o a una sorella e capita che si dimentichino delle loro mamme, soprattutto quando sono piccoli. Questo distacco procura loro molta sofferenza e le rende irrequiete e instabili”. Il lavoro che le detenute svolgono non riguarda solo gli aspetti professionali ma anche quelli di vita quotidiana, perché “il carcere infantilizza. C’è qualcuno che decide per te, che fa le cose per te, che pensa per te”, continua Carpiniello. E ricorda di quella volta in cui sono andate a Milano per partecipare alla fiera Fa’ la cosa giusta. Con loro c’era anche una detenuta che, ogni volta che la sera rientravano, lasciava aperta la porta dell’albergo. “Quando gliel’abbiamo fatto notare lei ci ha risposto che si dimenticava perché in carcere era sempre la guardia a chiudere le porte. Questo episodio ci ha fatto riflettere. Facciamo molta attenzione a coinvolgere le donne in ogni decisione e in ogni operazione. In questo modo le detenute si riappropriano anche delle competenze più banali e quando escono non devono ricominciare tutto da capo”.

Questo sistema ha fatto sì che molte delle donne impiegate nella torrefazione, una volta uscite, si sono reinserite nella società e non hanno più commesso reati. Alcune delle detenute stanno già sperimentando il lavoro esterno. Nel luglio del 2020, infatti, “Le Lazzarelle” hanno aperto un bistrot nella galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo archeologico nazionale, dove è possibile gustare piatti preparati con ingredienti freschi e di qualità. Un altro degli obiettivi. “Un progetto sociale nel cuore della città antica per dare la possibilità di conoscere la nostra realtà e per inserirci più direttamente nel mercato”.

Attualmente, ci lavorano tre detenute, una in semilibertà e due in affidamento. Anna, quarantacinque anni, dopo cinque anni di reclusione, dal settembre scorso è in semilibertà. Esce alle 7 di mattina dal carcere e rientra alle 22. Dopo il lavoro, va a trovare i genitori, a cui è molto legata. “Fortunatamente, non sono sposata e non ho figli. Sarebbe stato molto più duro”, afferma. “Non sono mamma, ma sono figlia e la sofferenza di mia madre mi lacera il cuore. Lei è libera, ma è come se fosse prigioniera come me. Il dolore che si dà alle persone che si amano è una cosa difficile da sopportare. Nonostante i miei errori, per fortuna, la mia famiglia mi è sempre stata vicina”.

Anna ha un fratello, che vive in un’altra città, e una sorella, sposata con due bambini. “Io la ringrazio perché quando c’è stata la disgrazia, come la chiamo io, lei ha sempre garantito la continuità del rapporto con i miei nipoti, che, allora, erano piccoli. Sia lei sia mio cognato hanno continuato a mantenere vivo in loro l’affetto per la zia. Ora loro sono grandi e mi amano come se non ci fosse mai stato il distacco. Sono venuti a trovarmi anche in carcere. Ci sono donne che non hanno nessuno, e per loro è veramente dura. Quando sono entrata in prigione la torrefazione esisteva già e io ho colto al volo la novità del progetto. È una realtà dentro una realtà, un pezzo di mondo vero che non ti immagini possa esistere.

Dopo un anno di attività all’interno, ho cominciato a lavorare al bistrot, due anni in articolo 21 e ora in semilibertà. Uscire dopo cinque anni è stata un’esperienza forte, tante emozioni tutte insieme. Mi sembrava di non essere più capace di fare niente, neanche le cose più banali. La prima volta che sono uscita, per esempio, mi creava apprensione anche comprare il biglietto della metropolitana. In carcere ci si disabitua a tutto. Sono sempre gli altri che fanno per te, ti viene tolta l’autonomia. E con il passare del tempo si perde la sicurezza. Subisci una sorta di regressione. È una brutta sensazione. Ora sento che sto riprendendo in mano la mia vita”, continua Anna, a cui mancano tre esami per laurearsi in Economia e commercio. “Ho un lavoro, uno stipendio, lo studio, la mia famiglia. Sto costruendo il mio futuro e mentre lo costruisco lo vedo, e questo mi dà speranza. Si può sbagliare ma si può anche cambiare”.