sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Donatella Stasio

La Stampa, 4 dicembre 2023

Le pressioni di Meloni sulle toghe vanno oltre anche quanto successo negli anni di Berlusconi. I giudici devono essere indipendenti e difendere i diritti dei cittadini, non la maggioranza al potere. Il 19 giugno 1925 il ministro della Giustizia Alfredo Rocco si alzò dal suo scranno in Parlamento e disse: “La magistratura non deve fare politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista - assicurò - ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista”.

La magistratura doveva essere “apolitica”, parola molto in voga anche oggi, e soprattutto non doveva remare contro il regime ma interpretarne lo spirito. E così fu, salvo rare eccezioni, anche a furia di intimidazioni. Insomma, guai a “contrastare le misure del governo”: stavolta le virgolette si riferiscono alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che da Dubai proprio di questo torna ad accusare “una piccola parte della magistratura”, le solite “toghe rosse” (Magistratura democratica), cioè di andare “fuori dalle righe” perché politicizzate. La stessa accusa lanciata dopo la decisione della giudice Apostolico sui migranti e dopo l’imputazione coatta ordinata dalla Gip di Roma nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Delmastro (poi rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio), e via via rilanciata da altri esponenti del governo, come i ministri Salvini e da ultimo Crosetto, che ha parlato di “opposizione giudiziaria”.

È come fare un salto indietro nel tempo, non solo al ventennio berlusconiano ma addirittura a quello fascista. Hai voglia a fare dell’ironia, a scandalizzarsi per il riferimento! Sono i fatti di questo primo anno di governo a riportare indietro le lancette. Passi falsi? Non convince la linea del “gettare il sasso e poi nascondere la mano”, per cui, da Meloni a Crosetto, dopo aver aggredito si cerca di minimizzare e di passare per aggrediti. C’è, purtroppo, un’inquietante assonanza di linguaggio, di concezione del potere e di visione del ruolo degli organi di garanzia che ci riporta ad anni bui. E poi ci sono le politiche messe in campo. Troppi sbandamenti populisti, sovranisti, per certi aspetti anche autoritari. Basti pensare all’insofferenza verso i limiti al proprio potere, di cui il “premierato all’italiana” è uno specchio impietoso poiché, al di là del dato testuale, punta ad accentrare e rafforzare il potere del governo e a rimpicciolire quello dei contrappesi, a cominciare dagli organi di garanzia. Tra i quali c’è la magistratura. La sua indipendenza è la prima garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini. Non è irresponsabilità. È funzione vitale di uno stato di diritto.

Ecco perché la magistratura può, e deve, avere una funzione “contro-maggioritaria” qualora le leggi mettano a rischio i diritti fondamentali. La sua bussola è la Costituzione e l’ordinamento internazionale ed europeo. Non la politica dei governi di turno. Lo ha spiegato magistralmente ieri, su questo giornale, Vladimiro Zagrebelsky. Ed è di lezioni così che l’opinione pubblica ha bisogno per emanciparsi dagli inganni di una narrazione frutto di analfabetismo costituzionale, di superficialità oppure di una precisa cultura politica. Una cultura antisistema.

Ma torniamo al ventennio fascista, a quel nostro passato che, purtroppo, tanto ci racconta del presente. Il giudice doveva essere “bocca della legge” - ruolo rivendicato di recente anche dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, ex magistrato ma della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente - e interpretare solo lo spirito politico dell’epoca. Una tentazione di molti governi. Nel 1955, di fronte alla mancata attuazione della Corte costituzionale e del Csm, Piero Calamandrei accusò la maggioranza di “disfattismo costituzionale”. “Anche se i giudici non se ne accorgono, la giurisprudenza è fortemente influenzata dal clima politico generale - scrisse -: quando nell’aria si respira il disfattismo costituzionale, è difficile che i giudici riescano ad assumere su di sé il compito faticoso, e spesso pericoloso, di difendere la Costituzione contro gli arbitrii del Governo. A consigliare alla magistratura questa prudenza, in momenti in cui liberamente circolano liste di proscrizione contro i magistrati sospetti di ‘criptocomunismo’, può aver contribuito anche, in questi anni, la mancata attuazione delle norme costituzionali sul Csm, che avrebbe dovuto dare ad essa quella piena indipendenza dal potere esecutivo che finora essa organicamente non ha”.

Anche oggi si respira aria di disfattismo costituzionale (tra l’altro, con la separazione delle carriere si propone di aumentare la componente politica nel Csm). Chi rivendica, alla luce del sole, di avere come faro la Costituzione e le Carte sovranazionali è considerato eversivo, un nemico del “governo democraticamente eletto”. E queste accuse che non risparmiano neanche i media non allineati. Una nuova forma di maccartismo, lo ripeto, che prende di mira proprio i contrappesi, vitali in una democrazia costituzionale, pluralista, antifascista.

Caduto il fascismo, ma prima della Liberazione, il ministro della Giustizia del secondo governo Badoglio, Vincenzo Arangio Ruiz, volle dare subito un segnale di cambiamento. Il 6 giugno 1944 cancellò il divieto, imposto dal regime ai magistrati, di esprimere liberamente il proprio pensiero, di svolgere attività politica e persino di iscriversi ai partiti politici. Da vero liberale qual era, spiegò che “dentro o fuori i partiti, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci quanto più nascoste”. Dopo un ventennio di conformismo giudiziario al fascismo, restituire ai magistrati il diritto di esprimere idee e opinioni, e di manifestarle liberamente, era indispensabile per assicurare la loro libertà e autonomia, necessarie a lavorare in condizioni di effettiva indipendenza e imparzialità.

Non può esistere un magistrato “apolitico”, senza idee, credi religiosi o politici, interessi sociali e culturali, sensibilità diverse. La sua imparzialità va ricercata altrove, fece capire Arangio Ruiz, non nelle opinioni politiche, che non si possono cancellare nei cittadini magistrati, ma nella libertà di coscienza del giudice che decide. Libertà da qualunque condizionamento, interno ed esterno. Sine spe ac sine metu, si usa dire. E una classe dirigente davvero responsabile, che abbia a cuore la democrazia costituzionale, dovrebbe anzitutto farsi carico di non intimidire i giudici, come invece avviene ciclicamente in Italia.

Tira aria di guinzagli e di bavagli. Eppure, che i giudici abbiano il diritto di partecipare al dibattito pubblico lo hanno riconosciuto sia la Corte costituzionale sia le alte Corti europee con riferimento ai giudici turchi e polacchi perseguitati dai rispettivi governi. L’opinione pubblica dovrebbe esserne informata di più e meglio. Dovremmo prendere esempio dalle piazze di Israele, che, prima della guerra, si sono riempite per mesi di cittadini ai quali giuristi e giudici hanno spiegato perché bisognava contrastare la riforma della giustizia del governo Netanyahu e il suo disegno di addomesticare la Corte suprema, famosa per la sua coraggiosa giurisprudenza a tutela dei diritti, formatasi anche grazie all’interpretazione evolutiva delle leggi fondamentali israeliane, aperta al diritto internazionale. Non certo “bocca della legge”.

Israele e tanti paesi del mondo ci raccontano del rischio incombente di regressioni democratiche. La prima avvisaglia è l’attacco alle Corti costituzionali e ai giudici. Quel che è accaduto in Turchia, Ungheria, Polonia è agghiacciante e lo ha raccontato, proprio al Congresso di Md il 10 novembre scorso, Mariarosaria Guglielmi, presidente di Medel, Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés. In prima fila, seduto ad ascoltarla, c’era il presidente del Senato Ignazio La Russa, invitato e ascoltato a sua volta. Tutto alla luce del sole. Compresi gli applausi di La Russa. E si può solo sperare che fossero sinceri.