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di Errico Novi

Il Dubbio, 1 novembre 2023

“Addio a Bonafede e all’improcedibilità che uccideva i processi”: così il partito di Meloni s’intesta la riforma. Grazie alla “perseveranza”, come lui stesso la definisce, di Enrico Costa, già nella scorsa legislatura si arrivò, in campo penale a traguardi tutt’altro che scontati. Basti pensare alle norme sulla presunzione d’innocenza, che il deputato di Azione trascinò al centro del dibattito politico quando nessuno, praticamente, sapeva che in quella materia l’Italia avrebbe dovuto recepire una direttiva Ue.

Ma sulla prescrizione, la pur legittima rivendicazione di Costa va intrecciata con un altro, decisivo segnale politico: le parole con cui il sottosegretario Andrea Delmastro intesta a se stesso, dunque anche a Fratelli d’Italia e, in ultima analisi, a Giorgia Meloni, il ritorno al regime “sostanziale”. Nel primo pomeriggio di ieri, Delmastro ha innanzitutto tenuto a comunicare che la commissione Giustizia della Camera aveva completato la propria mission: “Approvato il mandato al relatore per la riforma della prescrizione”. Poi il sottosegretario ha aggiunto: “Con la prescrizione sostanziale, mai più cittadini indagati e imputati a vita secondo la sgrammaticata parentesi bonafediana e contro ogni principio garantista”. Che è un concetto di un certo peso se declinato dal partito di maggioranza relativa, considerato comunque il più intransigente, nel centrodestra, in materia penale. Proprio Delmastro, oltretutto, del rigorismo di FdI sulla giustizia è sempre stato il principale alfiere.

Certo, il sottosegretario che a via Arenula rappresenta il partito della premier legge l’altro aspetto della riforma targata centrodestra, il superamento della “Cartabia”, in una chiave piuttosto singolare: “Voltiamo pagina anche rispetto alla improcedibilità che avrebbe rottamato migliaia di processi, contro ogni pulsione verso l’accertamento di una verità giudiziaria”. Magari è anche vero, per i reati memo gravi: i due anni concessi come termine base dalla riforma del 2021 per arrivare alla “decadenza” dell’azione penale in appello rischiavano di lasciare nel limbo del nulla di fatto parecchi processi. Ma è vero pure che l’improcedibilità contemplava una così intricata rete di deroghe ed eccezioni, anche per i reati di corruzione, da risultare innanzitutto di non facile applicazione per gli stessi giudici.

In ogni caso è una notizia che il partito di Meloni rivendichi il ritorno alla prescrizione sostanziale. A un regime come quello previsto dal testo uscito ieri dalla commissione Giustizia, equilibrato e ispirato alle raccomandazioni della commissione Lattanzi. Come segnalato sul Dubbio di ieri, con il voto in commissione prima sugli emendamenti (nella notturna iniziata alle 21 di lunedì sera) e poi per il mandato ai relatori Costa e Andrea Pellicini di FdI (nella riunione di ieri mattina), è tutto pronto per la discussione nell’Aula di Montecitorio, fissata per lunedì prossimo: si partirà con la discussone generale, mentre il voto finale sul provvedimento potrebbe arrivare martedì o mercoledì al massimo. Toccherà poi al Senato. Dove, considerata l’elaborata mediaszine politica condotta, innanzitutto da Carlo Nordio e dal suo vice Francesco Paolo Sisto, già in occasione dell’esame alla Camera, difficilmente la maggioranza rimaneggerà ancora il testo.

Anche perché la legge di Montecitorio rappresenta un punto di sintesi difficilmente migliorabile. Sempre per citare la nota di Andrea Delmastro, “la giustizia non deve più essere ostaggio di contrapposte curve di oltranzisti, ma il luogo ove si coniugano, con equilibrio, garanzie e diritti da un lato e necessità di pervenire a una verità giudiziaria dall’altro”. Ed è tutto sommato una valutazione calzante, perché se decade l’abnormità del processo potenzialmente infinito concepita con la riforma Bonafede (che la legge Cartabia ha dovuto a suo modo disinnescare), si evita anche che la prescrizione possa intervenire come una mannaia senza lasciare un margine di tempo perché si celebrino i giudizi di impugnazione: sono previsti, come è noto, una sospensione di 24 mesi dopo l’eventuale condanna in primo grado, e un’altra di 12 mesi qualora in appello sia confermata la condanna del tribunale.

In due casi è previsto un meccanismo di reimmissione di queste sospensioni nel computo del “tempo necessario a prescrivere”: se il giudice dell’impugnazione (quindi la Corte d’appello o la Cassazione) deposita la propria sentenza dopo la scadenza del “bonus”, oppure se quella fase del processo o quella successiva si conclude con un proscioglimento (o se “la sentenza di condanna è annullata nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero sono accertate le nullità indicate negli articoli 604, commi 1, 4 e 5- bis, del codice di procedura penale”, tanto per citare alla lettera la nuova norma). Il tutto vale anche per l’eventuale giudizio d’appello bis “conseguente all’annullamento della sentenza con rinvio” da parte della Suprema corte.

Insomma, è una legge non lontana dalla riforma Orlando e quasi del tutto sovrapponibile alla proposta della commissione Lattanzi: il prodotto dell’accademia al più alto livello. Il che non ha impedito al Movimento 5 Stelle di esibirsi in un fuoco pirotecnico di emendamenti che Costa ha definito “provocatori”. Tutti respinti, ricorda il deputato di Azione: alcuni, spiega, puntavano a “quintuplicare i termini di prescrizione di alcuni reati o a rendere imprescrittibile l’abuso d’ufficio”. Ce n’era pure qualcuno che “peggiorava” la Bonafede, con l’anticipazione del blocco della prescrizione alla richiesta di rinvio a giudizio: il lodo Davigo- Di Matteo.

Normale “movimentismo” da opposizione. Colpisce però che la capogruppo pentastellata in commissione Giustizia, Valentina D’Orso, avvocata, si esibisca in un attacco ai propri colleghi: “Grazie al governo Meloni, nei processi penali torneranno in pompa magna tutte le tecniche dilatorie per allungare i tempi”. Cioè secondo lei i ricorsi in appello e in cassazione non sono espressione del diritto di difesa ma trucchi ignobili. E poi dicono che l’avvocatura può contare in Parlamento su una lobby di ferro.