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di Rosario Di Raimondo

La Repubblica, 10 settembre 2023

Incontro con gli insegnanti dei ragazzi di San Siro, nella periferia di Milano, dove salvarli è una sfida. A venti minuti di metrò da piazza Duomo uno dei quartieri più complessi della città: case occupate, spaccio e aggressioni, ma anche una nuova generazione di rapper che cantano radici e speranze. La signora Francesca passeggia davanti al mercato comunale chiuso: “Vivo qui da quarant’anni ma oggi quando fa buio non vado a fare la spesa. Abito al piano rialzato, ho tolto le piante dal balcone perché i ragazzi ci nascondevano le bustine di droga”.

Su un palazzo di via Paravia resiste la scritta “Welcome to San Siro” e in via Zamagna una denuncia sbiadita ricorda: “Questo era un asilo, è abbandonato da trent’anni”. Un quadrilatero di strade. Dodicimila abitanti, seimila case popolari, centinaia occupate o sfitte, aggressioni e spaccio, giovani che si sentono in un ghetto, integrazione difficile, la povertà e la rabbia nel rap del collettivo “Seven 7oo”, che canta le sue radici: “Abbiamo visto la fame”.

Lo stadio e le ville da una parte, la scintillante City Life dall’altra, due linee del metrò, il tram che porta in Duomo in venti minuti. Eppure, in mezzo, c’è quella che con poca benevolenza viene definita una casba. Chi lavora qui, in avamposti per salvare generazioni altrimenti perdute, chiede un esercito: non in mimetica ma composto da insegnanti, educatori, mediatori.

In via Zamagna 4, strada simbolo, don Claudio Burgio, cappellano del carcere Beccaria e anima dell’associazione Kayrós, gestisce uno spazio: “In un bilocale di Aler (l’azienda lombarda di edilizia pubblica, ndr) accogliamo ragazzi dagli 8 ai 20 anni. Organizziamo attività sportive, doposcuola, corsi. Sono giovani di seconda e terza generazione, spesso originari del Nord Africa, che vivono un conflitto con le famiglie. Sviluppano un forte sentimento di vittimizzazione, di ansia da prestazione, si sentono discriminati, vivono una frattura con le istituzioni. La povertà li porta a commettere reati. Il nuovo decreto nasce su un’onda emotiva ma risolve poco o niente. Prima del carcere bisogna aiutarli: se vivono nella povertà assoluta difficilmente si sentono parte della società. Il Daspo? I ragazzi vanno inclusi non esiliati”.

I più grandi bevono un bicchiere al Baarebò, i fratelli minori girano in gruppo lungo gli stradoni, le facciate di alcuni palazzi cadono a pezzi, lì all’angolo ti consigliano il “miglior kebab di Milano”, dall’altra parte la gastronomia egiziana. Federico Bottelli, 28 anni, consigliere comunale del Pd, passeggia per il rione mentre gli operatori dell’Amsa liberano le strade da cumuli di rifiuti (che alcuni portano qui da fuori, come una discarica). Indica un palazzo di via Mar Jonio: “Il sottotetto è andato a fuoco tre volte per via di occupazioni e allacci abusivi. La situazione è drammatica perché negli anni la zona è stata abbandonata, si respira un sentimento di ghettizzazione. Ora sono in corso bandi di riqualificazione. Il decreto? Bisogna chiarire gli obiettivi: riempire le carceri o trovare soluzioni alla radice?”.

Dietro una parete a vetro di via Gigante c’è “Off Campus”, progetto del Politecnico sorto grazie alla collaborazione con istituzioni pubbliche e private. Melissa Miedico, professoressa di Diritto penale in Bocconi, segue lo sportello legale: “La politica guarda ai prossimi quattro anni, ma dovrebbe guardare ai prossimi venti. Il Codice penale, quando il disagio è così profondo, non serve a risolvere i problemi. Ci vogliono welfare e scuola. Servizi sociali, educatori di strada, lavoro sulle famiglie. Abbiamo una richiesta altissima di doposcuola. E io ho visto come cambia l’approccio degli studenti: vuol dire trovarsi il lunedì mattina con i compiti fatti, alzare la mano quando la maestra chiede come si coniuga un verbo, i ragazzi entrano in classe con forza e dignità. Questo li tiene lontani dal mettere la maschera dei cattivi”.

Per Annamaria Borando, quello che inizia è il decimo anno da preside al tecnico professionale Galilei-Luxemburg. Scuola di frontiera, 1.700 studenti. “Andare via da qui per me sarebbe uno sconforto. È una sfida, più di un lavoro. Abbiamo ragazzi che non hanno i soldi per la merenda o vengono a scuola con un cambio che lavano e rimettono il giorno dopo. Alcuni arrivano da situazioni difficilissime, allo sbando, sin da piccoli. Vivono in strada, sono adescabili dalle bande. Il primo passo è inserirli in una classe in cui i docenti li vedono con gli occhi della possibilità. La sfida è anche preparare i professori. Il decreto prende di petto un tema centrale: è innegabile che negli ultimi tempi la violenza sia in aumento. Ma a lungo termine serve un discorso di formazione e investimento su scuole e quartieri come il nostro”.

Vicino a piazzale Selinunte, in un laboratorio comunale di quartiere, l’operatrice Carmen Gulap fa doposcuola: “È come lavorare a maglia, cerchi di tessere con le risorse che hai. C’è sempre qualcosa che manca: questa è la nostra metafora”. Qualche ora prima stava aiutando O., studente egiziano di seconda media, a fare i compiti. È entrato un papà senegalese con i suoi tre bambini, che non trovano posto a scuola. O., d’istinto, li ha “invitati” nel suo istituto, poco fuori dal rione: magari lì c’è posto. Poi ha sentito il bisogno di aggiungere: “Lì però ci sono tanti italiani”. Noi e loro, fin da piccoli, a venti minuti dal centro di Milano.