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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 20 ottobre 2023

La legge che impone la sanità a pagamento ai neri non è la prima legge razziale: prima ci sono stati i decreti sicurezza di Conte e Salvini, per non parlare delle tutele differenziate per i lavoratori di colore. Non sono una novità, in Italia, le leggi fondate su discriminazione etnico-razziale. E non ci riferiamo a quelle approvate durante il Ventennio, ma a quelle allegramente introdotte ben dentro il periodo repubblicano (naturalmente senza una rubrica esplicita che ne avrebbe denunciato in modo più plateale il carattere discriminatorio). Avevano quella tempra i cosiddetti “Decreti sicurezza”, sia nella versione originaria - mantenuta in purezza, per un annetto, dal governo grillin-progressista - sia nella versione edulcorata che toglieva qui e là qualche virgola al generale impianto che costruiva un diritto speciale per chi - a patto che fosse povero e nero - approdava da noi.

Ma già prima avevano il medesimo contenuto di selezione geografico-cromatica le normative apprestate in certi settori, vedi per esempio quello del lavoro domestico, nei quali per puro caso il dimezzamento della tutela sindacale e previdenziale è concomitante con la presenza in stragrande maggioranza di addetti immigrati. Anche i ristori al tempo del Covid erano ragionevolmente negati ai collaboratori domestici rimasti senza lavoro, non ostante si trattasse di una delle categorie inevitabilmente più colpite dalle regole di isolamento e profilattico-sanitarie e ancora una volta, guarda caso, nel ricorso della statistica che registra appunto in quel comparto una prevalenza degli stranieri.

E fa riflettere, questa situazione, alla luce della retorica che vorrebbe rimesso in sesto il Paese tramite il ripristino (ma quando c’è mai stata?) della cultura “meritocratica” e la riaffermazione di politiche (ma quando mai ci sono state?) che tornino una buona volta a premiare il merito individuale. Qui una graduatoria di merito c’è, con gli immigrati che non meritano trattamento uguale perché hanno il demerito di essere immigrati, e con gli italiani che stanno sopra (prima, anzi: “prima gli italiani”) perché hanno il merito dell’italianità.

L’ugualitarismo costituzionale, secondo cui la Repubblica ha il dovere di rimuovere gli ostacoli “di ordine economico e sociale” che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, in ottica liberale è piuttosto discutibile: ma occorre riconoscere che qui si assiste a qualcosa di peggio rispetto alla povertà e al basso rango quali ostacoli alle ambizioni di vita e di benessere delle persone. Qui, più gravemente, l’ostacolo è la razza e la provenienza geografica, vale a dire condizioni ben più intime e irrevocabili rispetto alla pura scarsità di mezzi e all’appartenenza alla fascia meno privilegiata della società.

Poi si può far finta che non sia così, si può ricoprire il profilo discriminatorio di queste normative con il velo di assoluzione adibito a manifesto delle esigenze di sicurezza, dell’eccezionalità del momento, delle priorità di cui tenere conto quando la coperta del bilancio pubblico è troppo corta: ma una sicurezza garantita dalla segregazione non ha mai portato nulla di buono, le follie normative in nome dell’emergenza dovremmo conoscerle e, soprattutto, in un sistema civile non dovrebbe avere posto una politica che, per tutelare i diritti di alcuni, li toglie agli altri in una specie di redistribuzione per titoli epidermici.