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di Massimo Giannini

La Stampa, 1 maggio 2022

Per Lorenzo, schiantato da una putrella nel suo ultimo giorno di tirocinio a Udine. Per Luana, mangiata viva da un orditoio tessile a Prato. Per i 1.221 che se ne sono andati l’anno scorso. Per i 218 che sono caduti già quest’anno. Questo Primo Maggio è per loro, come ha detto il presidente della Repubblica: una Festa al contrario, perché non c’è niente da festeggiare quando il lavoro non è vita ma è morte, non è diritto ma sopruso. Ma la festa al contrario vale anche per tutti gli altri. Per chi di lavoro ci vive, o più spesso ci sopravvive. Per chi nel lavoro, insieme al dovere, vede anche il riscatto e il rispetto, ma non trova né l’uno né l’altro. Sergio Mattarella ha ancora una volta il merito di parlare chiaro, al Paese e al Palazzo. Il lavoro irregolare troppo spesso “varca il limite dello sfruttamento, persino della servitù”. La precarietà è “una spina nel fianco della coesione sociale”. Le condizioni salariali sono critiche per troppi “lavoratori poveri e pensionati poveri”. Mai come quest’anno, il Primo Maggio di guerra ci interroga tutti. E pretende risposte, soprattutto dal governo e dalle classi dirigenti.

C’è un dovere di chiarezza sulla politica economica. Lo diciamo da almeno due mesi: anche se Draghi non lo conferma, noi in un’economia di guerra ci viviamo già. In un mondo in cui la crescita prevista si dimezza al 3 per cento, il Pil italiano torna a decrescere dello 0,2 per cento nel primo trimestre, l’inflazione ad aprile sale al 6,2 per cento, la spesa pubblica sfonderà il tetto dei 1.000 miliardi a fine 2020, i ricavi delle imprese crolleranno del 3,2 per cento l’anno prossimo. Sul versante prezzi-salari il quadro è ancora più complesso.

La guerra fa esplodere un focolaio inflattivo già acceso da tempo su tutte le filiere: tra il 2019 e il 2021 i prezzi del gas sono cresciuti del 636 per cento, quelli del petrolio del 46, quelli del mais del 77, quelli del frumento del 57. Per contro, le retribuzioni medie orarie tra gennaio e febbraio sono ferme, e tra il 1990 e il 2020 i salari medi degli italiani sono calati del 2,9 per cento. Gli occupati precari sono 3,2 milioni, quelli a part time sono 4,8 milioni. I lavoratori che aspettano il rinnovo contrattuale sono 6,8 milioni. La media di attesa tra i vari settori merceologici è di 30,8 mesi.

In queste condizioni disastrose, ci si aspetterebbero due cose. Un’operazione-verità sulle condizioni reali del Paese, un grande patto sociale sul modello di quello cui Ciampi vincolò le parti sociali nel 1993. Non abbiamo né l’una né l’altro. Abbiamo invece rigurgiti di lotta di classe tra imprese e sindacati. Abbiamo un tavolo negoziale, proposto dal ministro Orlando, che Confindustria considera “un ricatto”. E abbiamo un governo che centellina aiuti (il prossimo, in arrivo, di altri 8 miliardi) ma si ostina a non prendere di petto il vero nodo della fase: con la guerra che ha fatto saltare i conti del Def, non converrà rivedere le priorità indicate dal Pnrr, e magari riflettere anche su un ulteriore scostamento di bilancio? Ha ragione Veronica De Romanis: forse è il caso che Draghi parli al Paese, e spieghi come il governo intende affrontare i mesi durissimi che ci aspettano. Se mai ha avuto senso, il pacchetto “pace o condizionatori” ormai non si può più vendere alle famiglie e alle imprese italiane.

C’è un dovere di chiarezza sulla politica estera. I principi di base li conosciamo e li condividiamo: lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto più volte. La Russia è il carnefice, l’Ucraina è la vittima. Questa guerra è frutto della nuova volontà di potenza di Putin, che negli ultimi vent’anni ne ha già fatte tre (Cecenia, Crimea e Siria) e ne porta fino in fondo le responsabilità. Sua è la colpa del massacro dei civili, dello stupro delle donne, delle torture ai bambini. Sua è la colpa dell’invasione di uno Stato sovrano, della devastazione delle città, del saccheggio dei villaggi. Sua è la colpa delle tre crisi che adesso squassano il pianeta: crisi economica, crisi energetica, crisi alimentare. Non abbiamo bisogno di ribadire da che parte stiamo: stiamo dalla parte dell’Occidente e dell’Alleanza Atlantica, delle liberaldemocrazie e del diritto internazionale, del multilateralismo e della globalizzazione. È la parte giusta della Storia, e lo ripetiamo con forza e con orgoglio.

Respingiamo gli opposti ideologismi. C’è un ideologismo pro-russo e anti-amerikano (per usare una vecchia formula dei tempi della guerra in Vietnam): quello dei sedicenti martiri del Pensiero Unico, che in tv denunciano le odiose censure della fantomatica “informazione mainstream” mentre la medesima li lascia sdottoreggiare h24 sui talk e sui giornali, e degli indecenti cacadubbi della Sacra Rete, che sui social rimbalzano la bassa propaganda mosco-fila pronta a negare qualunque evidenza. Se servisse ancora una “firma” sui bombardamenti in territorio ucraino, l’abbiamo ottenuta con i due missili del Cremlino piovuti su Kiev durante la visita del segretario generale dell’Onu. Ma c’è anche un “occidentalismo” cieco e sordo (per usare la formula di Margalit e Buruma ai tempi dell’attacco qaedista alle Twin Towers). Quello degli intellettuali boots on the ground, che considerano intelligenza col nemico qualunque riflessione retrospettiva sulle vicende geo-strategiche di questi ultimi trent’anni. Capire come ci siamo illusi di ricostruire un Ordine Mondiale dopo la caduta del Muro di Berlino non significa affatto giustificare l’ingiustificabile (gli orrendi crimini di Putin). Ma aiuta a comprendere (possibilmente per non ripeterli) gli errori di prospettiva e i rapporti di causa-effetto che hanno contribuito a portarci fin qui. Cioè non dentro un nuovo Ordine, ma alle soglie della Terza Guerra Mondiale.

“Xavier Solana, da alto rappresentante della politica estera europea, a metà anni 2000 disse chiaramente che non era più pensabile un rapporto tra la Nato e l’Urss come quello dei tempi della Guerra Fredda… Era necessario identificare gli interessi comuni tra europei e russi. E visto che loro erano alla ricerca di una collocazione, bisognava creare un sistema di sicurezza e di difesa comune fondato sugli interessi vitali di europei, russi, americani… L’errore non fu ampliare i margini dell’Unione fino alla Russia, come fece Prodi. Al contrario, fu di essere rimasti chiusi in noi stessi, e aver portato la vecchia Nato ai confini… Fiona Hill, bravissima consigliera di diversi presidenti Usa, ha raccontato i suoi colloqui alla Casa Bianca nel 2008, con George Bush e Cheney. Prima del vertice Nato a Bucarest cercò di dissuaderli dall’includere nell’Alleanza militare Georgia e Ucraina, scatenando l’ira di Cheney e la reazione contrariata di Bush, il quale replicò che lui amava la “diplomazia vigorosa”. Quanto vigorosa, l’avevamo capito qualche anno prima con la sciagurata invasione dell’Iraq. Sappiamo poi come sono andate le cose…”.

Chi articola questi pensieri non è un pericoloso agente della Fsb travestito da giornalista. E non è neanche il professor Alessandro Orsini, in uno dei suoi deliri onanistici sui bimbi felici sotto le dittature. È il presidente della Consulta Giuliano Amato, in un’intervista al “Venerdì”. A meno che non si pretenda di inserire anche lui nella lista nera degli utili idioti del nuovo Zar di San Pietroburgo, conviene ragionare su ciò che dice. Senza per questo offrire sponde alla mattanza russa o indebolire la resistenza ucraina. La fine della pace è ormai sancita. La fase due del conflitto russo-ucraino è una guerra permanente a bassa intensità. Il piano-monstre di aiuti militari da 33 miliardi di dollari annunciato da Biden è un vero salto di qualità. L’intendenza euro-atlantica segue, aprendo a Ramstein il primo arsenale delle democrazie. Parliamo non più solo di sistemi di difesa anti-carro e anti-aereo, ma di armi offensive importanti e imponenti. Anche l’Italia sta per varare un decreto bis sull’invio di nuove armi all’Ucraina. Ormai siamo co-belligeranti a distanza. Come ha scritto giustamente Domenico Quirico, siamo entrati in guerra anche noi, ma senza il coraggio e l’onestà di dirlo a noi stessi.

Se la realtà è questa, allora tutti i governi a partire dal nostro hanno il dovere di spiegarlo alle opinioni pubbliche e ai Parlamenti. La domanda posta da Lucio Caracciolo è cruciale: dov’è la vittoria per noi occidentali? Stiamo armando Zelensky per consentirgli di resistere nell’attesa che le nostre sanzioni convincano Putin a fermarsi, o crediamo e vogliamo che l’esercito ucraino vada fino in fondo e vinca la guerra anche per conto nostro? Vorremmo saperlo: non è accettabile che la lista delle armi che stiamo inviando ai resistenti ucraini sia secretata dal Copasir. E dovremmo discuterne: non è possibile che Draghi non spieghi la posizione italiana alle Camere, cosa che finora è accaduta tre volte, il 25 febbraio, il 1° e il 23 marzo. La doppia missione del premier, prima a Kiev e poi a Washington il 10 maggio, segnala una positiva ripresa dell’iniziativa diplomatica. Ma è necessario un colpo d’ala nell’azione e nella comunicazione politica. Non basta dire “faremo quello che deciderà l’Europa”, anche perché la Ue non decide ed è tuttora divisa sull’embargo energetico. Bisogna dire cosa abbiamo fatto finora, nel rispetto o meno dell’articolo 11 della Costituzione. Bisogna sapere cosa vogliamo fare d’ora in poi, e semmai cos’altro noi proponiamo all’Europa, visto che la richiesta di fissare un tetto al prezzo del gas è stata respinta con perdite. E bisogna capire se l’Italia e l’Europa hanno ancora un po’ di filo da tessere, per provare a dare una chance alla pace. Tenendo sempre a mente le parole di Robert Schumann, citato proprio da Mattarella nel suo splendido discorso a Strasburgo: “La pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”.