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di Iuri Maria Prado

Il Riformista, 1 aprile 2024

Questa volta non è la denuncia del garantista petulante, il reclamo dell’azzeccagarbugli che notoriamente, secondo gli strilli della piazza forcaiola e le rappresentazioni dell’editorialismo embedded in Procura, prende di mira pretestuosamente la specchiatezza giudiziaria per farla fare franca ai manigoldi. Questa volta viene dai lombi della stessa giustizia l’ipotesi che nel processo regolato dalla legge uguale per tutti accada l’inenarrabile, e cioè che siano occultate le prove a favore di chi lo subisce.

Di questo si discute, infatti, nel giudizio a carico del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale. Un giudizio che, se dovesse concludersi - come nessuno si augura e gli augura, ovviamente - con l’accertamento delle responsabilità ipotizzate, devasterebbe l’immagine non soltanto dell’imputato, ma quella, propriamente, di un intero sistema. Perché è un intero sistema ad assistere, come se nulla fosse, a una vicenda che in modo esemplare ne denuncia le irrimediabili storture. Si prenda il bouquet di attestati ed emergenze curricolari che il procuratore della Repubblica di Milano, Marcello Viola, ha assemblato per giustificare la designazione di Fabio De Pasquale a corrispondente nazionale dell’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust).

Il fastello posto dal capo della procura meneghina a sostegno di quella candidatura, infatti, gravido di elogi per le “specifiche esperienze professionali in corruzioni, riciclaggio e frodi fiscali” di cui può menare vanto De Pasquale, e per la cura che egli avrebbe dedicato a “numerose indagini con ampio ricorso a strumenti di cooperazione giudiziaria penale internazionale”, opportunamente non comprende nessun riferimento all’imputazione bresciana che all’eminente magistrato milanese addebita, come si dice in latino corrente, di aver inguattato prove virtualmente favorevoli agli imputati (assolti a raffica) del processo “Eni-Nigeria”.

Che la faccenda, non propriamente clandestina, e non propriamente di dettaglio, debba essere accantonata per non deturpare gli accreditamenti concessi al De Pasquale dal vertice dell’ufficio è ovviamente ben comprensibile. Ma resta da svelare per quale motivo mai il cittadino debba accettare in serenità che resti al proprio rango, e anzi abbia prospettiva di sontuosi incarichi ulteriori, un funzionario rinviato a giudizio con l’accusa di avere sottratto al processo le prove che avrebbero destituito di fondamento l’accusa e arrecato elementi favorevoli alla difesa degli imputati. Resta cioè da capire come la macchina degli incarichi e delle carriere in magistratura possa procedere senza impedimenti e sorveglianze correttive quando c’è l’ipotesi (da verificare, per carità) che chi è dotato del potere di far imprigionare la gente sia lo stesso che costruisce l’accusa tenendo nel cassetto le prove che descriverebbero l’innocenza degli accusati.

Quel che non da oggi lamenta l’avvocatura, e che dovrebbe vedere chiunque fosse anche solo vagamente interessato a un comparto del vivere democratico e istituzionale - la giustizia, appunto - così disastrosamente ammalorato, è esattamente questo: la riduzione a un puro simulacro del principio secondo cui l’accusa pubblica dovrebbe, se non proprio ricercare, almeno non nascondere gli elementi di prova capaci di assolvere anziché inchiodare gli indagati. E se è vero che un processo parla solo di sé stesso e delle responsabilità di chi vi è coinvolto, è altrettanto vero che il processo in cui è imputato De Pasquale - che certamente saprà contestare le accuse - evoca una questione che in modo ciclopico incombe sulla giustizia di questo Paese e sui diritti dei cittadini che vi sono sottoposti: vale a dire il fatto che l’accusa pubblica, già dotata di poteri sovrabbondanti, mostra diffusamente la pretesa di dare le carte del processo riservandosi qualche licenza nel tenere coperte quelle che non fanno il suo buon gioco.

Non sarà un caso che tra le difese, quanto meno le iniziali, di De Pasquale ci fossero argomenti che non negavano in nessun modo il fatto (e cioè l’occultamento al giudicante di quegli elementi di prova favorevoli agli imputati), e semmai si rivolgevano a sostenere che si trattava di elementi irrilevanti. E qui inevitabilmente bisognerebbe affidarsi al giudizio del cittadino comune, magari non provvisto di sufficiente dottrina, il quale tuttavia avrebbe il buon diritto di tenere in sospetto una giustizia che si muove sulla scorta di un’accusa pubblica libera di agire in questo modo, rivendicando di poter discrezionalmente decidere quanti documenti, e quali, far conoscere al giudice cui chiede di irrogare una sanzione penale.

Questo, infatti, vorrebbe pressappoco il cittadino comune: vorrebbe che un elemento di prova a sé favorevole fosse ritenuto rilevante o no dal giudice che lo esamina, non dall’accusatore che impedisce al giudice di esaminarlo. Ma non basta. Un’altra faccenda, infatti, di proporzioni anche più allarmanti, grandeggia sul caso del dott. De Pasquale, una faccenda che un’altra volta chiama in causa disfunzioni e malcostumi generalizzati. E si discute del fatto che De Pasquale non solo ha ricevuto quell’endorsement sulla via di Eurojust ma - ad onta del processo da cui sicuramente uscirà benissimo, ma che ad oggi lo inguaia - potrebbe veder confermato il proprio ruolo di procuratore aggiunto all’esito delle procedure per l’avvicendamento nell’incarico.

Una commissione del Consiglio superiore della magistratura, nell’attesa del plenum che deciderà sulla cosa, s’è messa di traverso con un giudizio contrario a quello, inesorabilmente positivo, espresso a suo tempo dal procuratore Viola e dal Consiglio giudiziario. E dunque si vedrà. Ma, se andasse bene per De Pasquale, vorrebbe dire che in questo Paese può stare e rimanere ai vertici di un importantissimo ufficio giudiziario un magistrato spedito a giudizio con l’accusa di aver turbato l’andamento di un processo, in particolare facendo il repulisti delle prove - da lui discrezionalmente giudicate “irrilevanti” - che in ipotesi avrebbero potuto ridondare contro le tesi dell’accusa e in favore degli imputati. Giudichi chiunque se è questo un andazzo di cui godono tutti, i lavoratori e i funzionari e i professionisti estranei al circolo togato. E provi chiunque a spiegare in nome di quale principio (sarà forse “l’autonomia e indipendenza della magistratura”?) debba ancora essere tollerato che non basti nulla - nemmeno ciò che per altri pone fine a qualsiasi ambizione di carriera - anche solo per mettere in posizione di attesa e di dubbio disciplinare un magistrato.