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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 13 gennaio 2024

Chi ha seguito l’inchiesta da subito non ha difficoltà a coltivare il dubbio, 17 anni dopo. È possibile che ventisei giudici si siano sbagliati? È possibile. E che due persone abbiano confessato un delitto mai commesso? E che un testimone cambi in corso d’opera la descrizione dell’assassino? E che di una macchia di sangue non si sappia dove è stata rilevata e con quali modalità? Tutto possibile, per chi sta scommettendo sul processo di revisione nei confronti di Rosa Bazzi e Olindo Romano, ergastolani da 17 anni, condannati per l’orrenda strage di Erba del 2006, quattro persone, tra cui un bambino di due anni, uccise a coltellate e colpi di spranga.

In attesa della decisione del tribunale di Brescia del primo marzo sulla revisione del processo, continuano a crederci prima di tutto i legali dei due condannati, a partire dal pervicace avvocato Fabio Schembri. E poi il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, che con la sua richiesta di revisione del processo in contrasto con il capo dell’ufficio si sta giocando la reputazione con il procedimento aperto al Csm.

Prima di lui e fin da subito dagli arresti di Rosa e Olindo, solo pochi giornalisti avevano coltivato l’arte del dubbio sul caso. Erano quelli che avendo seguito l’inchiesta fin dall’inizio, che avevano potuto seguire passo passo quanto sia facile “accompagnare”, sulla base del poco per non dire del nulla sul piano delle prove, testimoni, opinione pubblica e infine ventisei giudici, alla condanna di due innocenti. Dubbio non vuol dire certezza, naturalmente. E se per caso Rosa e Olindo fossero responsabili di quella strage, avrebbero comunque dovuto essere assolti con quella formula che non esiste più nel codice, cioè l’insufficienza di prove.

Esaminiamole dunque, queste prove, alternando la memoria a quanto scritto dal procuratore Tarfusser. Sgombriamo subito il campo da alcuni elementi di tipo “negativo”, cioè quelle prove che proprio non esistono. Quattro persone sgozzate e nessuna traccia di sangue sul corpo e sugli abiti del due assassini. Avrebbero fatto in tempo a lavarsi, cambiarsi e trafugare gli abiti insanguinati in pochi minuti, mentre già arrivavano i pompieri, perché nel frattempo gli assassini avevano dato fuoco al palazzo. Nessuna traccia neppure del loro dna sul luogo del delitto, l’appartamento di Raffaella Castagna, dove invece esistono tracce di persone sconosciute e mai individuate. Non parliamo dell’alibi, uno scontrino di Mc Donald di Como che registra un’ora dopo quella del delitto. Eh, ma un’ora dopo. Ma vogliano lasciare il tempo di cenare, prima di pagare e far battere lo scontrino? Probabilmente l’avvocato Schembri avrebbe altro da aggiungere. Ma per ora fermiamoci.

Passiamo quindi alle tre “prove regine”, quelle che hanno convinto gli investigatori prima, e ventisei giudici dopo. Prova-pistola fumante: il testimone Mario Frigerio. Paradossale, ma è proprio la prova più debole, anche se il testimone, che ora non c’è più, ha deposto in aula le proprie “certezze”. Il signor Frigerio si è salvato dalla mattanza per via di una anomalia fisica, per cui la scudisciata alla gola lo ha gravemente ferito, ma alla fine lasciato in vita. La sua prima deposizioni in ospedale è inequivocabile. Due notizie dà con sicurezza: chi lo ha aggredito era uno “sconosciuto”, “di pelle scura, olivastra”. Uno sconosciuto che lui era pronto a riconoscere anche con photophit o identikit.

Piano piano però gli viene fatto il nome di Olindo, che per lui non era affatto uno sconosciuto visto che era il suo vicino di casa, e che non è affatto di pelle scura e olivastra. Pure, di accompagnamento in accompagnamento, anche malandato in salute e con successivo indebolimento cognitivo a causa dell’intossicazione da ossido di carbonio dovuto all’incendio, il signor Frigerio continuerà ad accusare il vicino, con cui i rapporti non erano mai stati eccellenti, di essere colui che aveva tentato di ucciderlo. E la sua testimonianza diventerà quella pistola fumante trovare la quale è il sogno di ogni investigatore.

Seconda prova: la macchia del sangue di un’altra delle vittime, Valeria Cherubini, sul battitacco dell’auto di Olindo Romano. Se il primo indizio faceva parte di quelle possibili forme di autosuggestioni che fanno parte anche della letteratura poliziesca, questa sarebbe invece, se fosse una prova, l’unica scientifica. La prima sensazione è che non sia stata trovata, ma cercata, perché spunta fuori dopo settimane, dopo che i due coniugi avevano anche continuato a usare l’auto. Inoltre, e la domanda non è secondaria, questa traccia ematica è stata repertata davvero sull’auto o altrove? Perché in nessuna foto dell’auto questa traccia è mai visibile. Ci sarebbero buchi nella catena di custodia e pasticci di firme, per cui non si sa bene chi abbia consegnato quel reperto ai consulenti tecnici.

E arriviamo a una questione di fondo, le confessioni degli imputati. Quello che ha più impressione sull’opinione pubblica, ma anche quello che ben conosce qualsiasi studente di giurisprudenza, che sa bene come mai, mai, la confessione sia una prova. Le confessioni, ci sono, certo. Ma basterebbe averle ascoltate, insieme soprattutto alla registrazione della preparazione di Rosa all’interrogatorio con il magistrato, per scrivere la parola “dubbio” a caratteri cubitali. Ci sono le registrazioni ambientali nella casa di Rosa e Olindo. Può darsi che i furbissimi (mah) assassini già sapessero di avere l’abitazione imbottita di microspie, fatto sta che i registratori riportano banali conversazioni tra coniugi.

Uno dice all’altra, secondo te chi è stato, poi si pongono domande. Mai un’ambiguità che possa suscitare sospetto. Poi c’è un dialogo che è un capolavoro, quando gli investigatori, avendo individuato nel marito l’anello debole della coppia, gli lasciano intendere che confessando potrebbero uscire dal carcere. Concedono un colloquio tra i due e i carabinieri li intercettano. Olindo dice: “ascolta… ho parlato con il magistrato… lui ha detto che se vogliamo far finire questa storia qui…”. Rosa: “Si?” “Di dire la verità” “Ma non c’è niente da dire… non c’è niente Olli, hanno fatto tutto loro, adesso torno a ripeterglielo, glielo ho detto cento volte”. Olindo: “Loro mi hanno spiegato la cosa in termini pratici. Se per disgrazia trovano qualcosa, ti processano e ti danno l’ergastolo. Se invece confessi, hai le attenuanti e il rito abbreviato. Dici la verità, che la moglie non c’entra niente e non becchi niente”. “Ma non è vero Olli”, Rosa insiste. “E io becco le attenuanti e finisce la storia”. Rosa: “Ma cosa c’è da confessare, non siamo stati noi” “Lo so, aspetta... ma se facciamo così prendiamo anche dei benefici e ce ne andiamo a casa”. Il 10 gennaio 2007 Rosa decide di autoaccusarsi. L’interrogatorio inizia alle 15,25 con queste sue parole: “Intendo rendere piena confessione, ho fatto tutto da sola”. Prima era stata preparata con metodi che desteranno scandalo quando il suo nuovo avvocato decise di rendere pubblico quel video. Diciassette anni e ventisei giudici dopo, occorrono commenti?