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di Sara Cariglia

Il Giornale, 23 ottobre 2023

Il 40 per cento della popolazione reclusa fa uso di sedativi o ipnotici, nei casi più gravi anche al di fuori di una terapia studiata ad-hoc da professionisti della salute mentale. Numeri ufficiali non esistono. Esiste solo la parola di chi questa presunta coltre di interminabili botte da benzodiazepine, l’ha vista con i propri occhi e combattuta con le proprie mani. “Quando ero cappellano, avevo chiesto al magistrato di vivere un anno nelle celle con 14-15enni autori di reati. Ne ho viste di tutti i colori. L’aspetto educativo in galera non passa dalla relazione reciproca, ma dallo psicofarmaco”.

Don Ettore Cannavera ha passato 27 anni nelle carceri minorili di tutta Italia. A buon intenditor di istituti penali giovanili, bastano poche parole per squarciare il velo tarmato che copre il più enigmatico e imperscrutabile degli interrogativi: nelle prigioni italiane esiste davvero un problema “occulto”: l’iper-uso di psicofarmaci?

Numeri ufficiali non esistono. Esiste solo la parola di chi, come il presbitero cagliaritano, questa presunta coltre di interminabili botte da benzodiazepine, l’ha vista con i propri occhi e combattuta con le proprie mani, nelle diverse “vie Crucis” della vita oltre il muro di cinta. Le parole di chi conosce bene il carcere, raccontano di uno spaccio interno di farmaci ansiolitici. Parole che parlano di giovani talmente assuefatti da queste sostanze, tanto da essere spinti a chiederne sempre di più. Ecco una fonte che lavora in uno dei minorili del Nord Italia: “Quando non gli vengono più forniti può succedere che incendino la cella, che diano fuoco ai materassi. A volte troviamo ragazzi dentro al carcere positivi alle sostanze. Vuol dire che c’è uno spaccio all’interno”. Il volto in incognito tuona senza filtri: "La situazione si sta trasformando in una polveriera ed è un peccato che esploda”.

Se nel silenzio statico delle celle sballo, bonghi e bevute sono proibiti, per tanti carcerati fare incetta di antidepressivi, sonniferi e antipsicotici, al fine di commerciarli o barattarli, sembrerebbe essere un gioco, il “game”, appunto: “In carcere chi non ha soldi, di solito usa la terapia come mezzo di scambio per comprare sigarette e caffè”, svela una ex detenuta. Un sistema che viene spesso accettato, perché gli psicofarmaci contribuiscono a tenere tranquilli gli animi.

A disarcionare la porta di sicurezza è anche la cruda testimonianza del Sovrintendente capo D., ora a riposo, del corpo di Polizia penitenziaria di Torino che, sconcertato sempre più dalle carenze ataviche delle “pazze galere”, le spiattella nude e crude: “L’abuso di psicofarmaci c’è sempre stato. Lo spaccio anche. In carcere accadono cose pazzesche. Il personale, poco e spesso poco professionale, non ce la fa più”. Il vice di lungo corso accentua il tono da falco e parla così: “Mi chiedo” dice “come possa un solo poliziotto, sì, perché la notte capita che ne monti solo uno, tenere a bada oltre duecento detenuti che si tagliano, bevono, che inalano gas dai fornetti, che nascondono pillole per poi spacciarle o che protestano buttando giù gocce accumulate di Valium, di En, ma pure lamette, chiodi, batterie e detersivi”. Un incremento “sbirresco”, suggerisce l’ex Basco Azzurro, sarebbe un primo passo verso la soluzione: “La situazione è completamente allo sbaraglio. Ben 85 suicidi solo nel 2022. Serve più sorveglianza. I detenuti vanno seguiti, curati e rieducati”.

In effetti, alcuni reclusi, pur di riprodurre il piacere delle bionde, fumano, per dire un eufemismo e per dirla alla Said Faim, medico penitenziario della casa circondariale di Milano San Vittore, erbe di ogni sorta. Tra i mix più testati e graditi si annoverano “foglie di basilico, fettine di cipolla e bucce di banane essiccate, fumate con paracetamolo e psicofarmaci”, spiega l’internista, consapevole di quanto quello carcerario sia un mondo a sé, assolutamente unico, difficile da comprendere per le persone che vivono fuori da quella eterna condanna. E quando è invece l’alcool a non poter entrare nelle celle serrate a triple mandata, perché proibito? “Capita, ma non è certo la regola, che qualche detenuto lo distilli clandestinamente in cella con dello zucchero e della frutta semi-marcia recuperata in mensa, e che lo mandi giù insieme a qualche sedativo messo da parte”, conclude lo specialista con esperienza trentennale nel settore.

Sui mille modi di eludere il sistema di sorveglianza, con qualsivoglia escamotage, è intervenuto invece l’ex comandante e sindacalista della polizia penitenziaria di Fermo, il commissario capo Gerardo D’Errico: “Qualche pusher si fa persino arrestare pur di portare dentro le mura ovuli di cocaina e farmaci psicotropi”, ci dice intanto che lumeggia con dovizia di particolari tutti gli altri “arcana imperii” del pianeta carcere. Alcuni detenuti, prosegue, “tentano di farsele recapitare addirittura direttamente dentro pacchi di viveri o tramite l’ingegnoso stratagemma delle lettere e della colla per appiccicare i francobolli che, ben si presta, a essere mescolata ai principi attivi di questi farmaci ansiolitici”. Per non parlare del vecchio mezzo utilizzato dai familiari ai colloqui, i quali cercano di occultare queste sostanze in “panini farciti, polpettoni, polli arrosto, ma pure nei risvolti dei pantaloni e nelle suole delle scarpe”. Insomma, bisogna avere mille occhi, e non bastano nemmeno: “I suicidi sono dietro l’angolo”, conclude D’Errico.

Ma sembra che qualcuno dietro le quinte di quell’angolo immerso in quest’ingorgo di vite morte, anche da overdose da psicofarmaci, ci si sia spinto fino in fondo, e ne abbia tratto le proprie (amare) conclusioni. Quel qualcuno è Antigone, roccaforte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”: “Il 2022 è stato l’anno in cui si sono registrati più suicidi nella storia moderna del penitenziario in Italia. Purtroppo uno dei pochi strumenti usati per approcciare al paziente-detenuto è l’uso comune, ancora attuale, massiccio e ricorrente di psicofarmaci”. Tradotto: “Il 40 per cento della popolazione reclusa fa uso di sedativi o ipnotici, nei casi più gravi anche al di fuori di una terapia studiata ad-hoc da professionisti della salute mentale”. No, a parlare non è la giostra dei media con la sua aria catastrofica, ma la “dea” (she) della giungla carceraria: Antigone.