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di Francesco Petrelli

Il Dubbio, 5 settembre 2023

La maturità precoce dei giovani? Un assunto tutto da dimostrare. L’ipotesi ventilata di rivedere il sistema sanzionatorio minorile, eliminando l’inimputabilità dei minori di quattordici anni (sospinta, come spesso accade, dalla cronaca giudiziaria (ripropone un tema che non è affatto nuovo.

Ma si tratta di questioni piuttosto inquinate da pregiudizi culturali. Si è dunque affermato che “oggi i ragazzi crescono in fretta: devono essere consapevoli delle conseguenze dei loro atti”. Dove quel “devono” confonde il dato deontico (il dover essere) con la possibilità di “essere” davvero consapevoli, un elemento la cui effettiva sussistenza dovrebbe essere invece il frutto di una osservazione empirica della realtà. Il presupposto è che vi siano reati e condotte il cui disvalore sociale e morale, come una violenza sessuale, è di intuitiva percezione. Altri illeciti posti a tutela di beni giuridici più ineffabili, che lo sono meno. Ma è sufficiente questa prospettiva per discriminare la risposta sanzionatoria dell’ordinamento? La consapevolezza della illiceità e della immoralità di una condotta può riassumere in sé la pienezza della responsabilità di quella scelta? Noi sappiamo che la nostra idea di sanzione nasce dal presupposto razionale del riconoscimento di una attitudine malvagia dell’essere umano e al tempo stesso della rimediabilità del male. Se “puniamo” il male è perché crediamo nella sua evitabilità. E se riteniamo l’autore di un illecito punibile, è perché crediamo che fosse pienamente in grado di comprendere e di volere il suo atto. Una pienezza di cui un bambino è certamente privo. Una pienezza che un adolescente non ha certamente raggiunto. Corre tuttavia in proposito l’idea che la più precoce e rapida diffusione dell’informazione operata dai mediatori sociali renda i giovani adolescenti più maturi e più consapevoli di quelli di una volta. Che oggi i giovanissimi, come sostiene la Senatrice Bongiorno, “acquisiscono nozioni che si acquisivano dopo” è assunto che è tutto da dimostrare, che spesso confonde l’idea della conoscenza, della consapevolezza e della maturità con quella di una frastornata saturazione di dati nudi e crudi privi del loro significato. Le esperienze empiriche (e la cronaca giudiziaria) ci insegnano che nel mondo adolescenziale l’emotività sostituisce i sentimenti e la reattività domina la ragione. Il pensiero veloce prende il sopravvento su quello riflessivo. Il confine fra realtà e percezione è rarefatto. Il mondo virtuale si pone come unico mondo reale. La cognizione del limite si fa sempre più evanescente.

E dobbiamo in proposito essere noi tutti consapevoli che quel mondo di latente impulsività e di virtualità tecnologica lo abbiamo consegnato noi ai nostri giovani, per cui di quella condizione di fragilità dovremmo noi tutti sentirci responsabili anziché scaricare sui minori gli esiti di un mondo disumanizzante. Occorre, in proposito, porsi una domanda pregiudiziale: se nella modernità una evoluzione vi è stata, questa evoluzione ha davvero aumentato le competenze del minore o ha solo aumentato il numero delle informazioni a disposizione? E tale patrimonio di dati corrisponde ad una crescita di consapevolezza e ad una vera educazione sentimentale, o si alimenta a detrimento del rapporto con la realtà e delle capacità di scelta? Sappiamo come nel nostro Paese corra sempre più veloce una diffusa e irragionevole cultura della pena e della penalità. Se questo sentimento fagociterà anche il processo e la giustizia minorile, e la risposta a queste domande sarà dunque quella sbagliata, avremo poco da sperare per quel che resta della Giustizia nel nostro Paese.