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di Marco Rutolo

La Stampa, 13 agosto 2023

Due detenute si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette a Torino. Una di loro si è lasciata morire rifiutando cibo, acqua e cure, per la disperazione di non poter vedere il figlio di quattro anni. Sono ormai storie ordinarie di vita penitenziaria, di un luogo ove la percentuale di suicidi è in costante crescita, specie nel periodo estivo. Le carceri sono affollate, ma le persone che le abitano si sentono sempre più sole, emarginate, dimenticate. Il sovraffollamento provoca anche questo, perché rende difficile proporre percorsi rieducativi che tengano davvero conto della specificità della singola persona detenuta, facendo svanire l’obiettivo di una vita carceraria impostata in modo da riflettere, nella misura più ampia possibile, le dinamiche della vita libera, come previsto dalle Regole penitenziarie europee.

Non è così e i motivi sono diversi. La crescita dei tassi di carcerizzazione è anche conseguenza di politiche sociali inadeguate, confermando l’assunto per cui a meno Stato sociale finisce per corrispondere più Stato penale. Ma il problema sta anche nel modo in cui è ancora concepita l’esecuzione penale, nell’incapacità di una sua innovazione che possa migliorare la quotidianità penitenziaria. Eppure le proposte non mancano, dai lavori degli Stati generali sull’esecuzione penale, che indicavano la via di una riforma organica dell’ordinamento penitenziario, a quelli della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, che suggerivano puntuali e concrete misure, soprattutto attraverso modifiche del Regolamento penitenziario e con l’adozione di specifiche circolari da parte dell’Amministrazione penitenziaria.

La risposta di giustizia non può guardare soltanto al passato, a ciò che è stato commesso, ma deve proiettarsi necessariamente verso il futuro, puntando al reinserimento del reo nella società, alla ricostruzione di quel legame sociale che il compimento del reato ha lacerato. A chiederlo è la Costituzione che guarda alla pena nella prospettiva della rieducazione (art. 27), ponendo sempre al centro la persona. A imporlo sono anche le Carte internazionali, a partire dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che rifiutano l’idea di una pena meramente afflittiva, guardando al reinserimento sociale del reo come obiettivo proprio dell’esecuzione della sanzione.

In carcere entra la persona e non il reato che ha commesso, fece scrivere all’ingresso del carcere di Valencia un illuminato direttore. Eravamo nell’Ottocento e quell’affermazione, oggi ribadita con altre formule nei documenti costituzionali e internazionali, è ancora lontana dall’essere realtà. Intanto in carcere si muore.