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di Valentina Stella

Il Dubbio, 1 luglio 2024

“Punizione” (edito da Il Mulino, pagine 178, euro 14) è il nuovo libro di Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale nell’Università di Palermo, già componente laico del Consiglio superiore della magistratura e Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia. Punizione è parola drammatica che ogni epoca tenta di riscrivere. Un tema controverso che oggi più di ieri è attraversato da incertezze e contraddizioni. “Può avere ancora efficacia la punizione come reazione a un reato?”, si chiede l’autore. “Se negli ultimi decenni ha prevalso una tendenza antiautoritaria e antirepressiva, incline a contestarne l’utilità anche in campo educativo, le forti ventate di populismo politico della nostra contemporaneità hanno alimentato pulsioni collettive, favorevoli a una concezione emotiva della punizione come vendetta pubblica. Ciò in totale contraddizione con quella “crisi della pena” che i giuristi non si stancano di denunciare, e con quella finalità educativa che ne connota la visione costituzionale”.

Come ricorda lo stesso autore, il noto sociologo Didier Fassin etichettò la punizione come una “passione contemporanea”, derivata “da spinte emotive e da sentimenti individuali e collettivi di frustrazione, rabbia e risentimento che si diffondono specie nei momenti di crisi socio-economica”. Secondo Fiandaca non mancano voci autorevoli che muovono critiche ai fenomeni di punitivismo irrazionale e rabbioso che tendono a crescere nella nostra società. E cita la filosofa statunitense Martha Nussbaum, secondo la quale “un legislatore razionale dovrebbe rifiutare il modo in cui il dibattito sulla gestione dei reati viene generalmente impostato, cioè come dibattito sulla giustezza della pena. In realtà io sono incline a pensare che la cosa più razionale sia rifiutare del tutto o per parecchi anni l’uso del termine pena, visto che restringe la mente, inducendo a pensare che il solo modo di riportarsi al crimine sia qualche guaio, come dice Bentham, inflitto al reo. La questione che ci sta di fronte è come affrontare l’intero problema degli atti delittuosi, non come punire le persone che ne hanno commesso uno”.

Fiandaca riprende anche un pensiero del filosofo Umberto Curi: “Si emettono sentenze, si definiscono sanzioni, si dispongono misure restrittive della libertà personale come se non vi fosse nulla di cui dubitare, come se il lavoro di giuristi e magistrati potesse essere davvero come una prudente applicazione di alcuni principi solidissimi e incrollabili e non l’espressione di una logica probabilistica, ai limiti della congettura o del vero e proprio azzardo”. L’autore poi si concentra sul concetto di rieducazione: prospettiva che “non ha mai ricoperto nella prassi una posizione preminente all’infuori dei ristretti ambiti della magistratura di sorveglianza e del personale a vario titolo addetto ai percorsi trattamentali.

Mentre nel contesto politico culturale esterno e negli orientamenti della pubblica opinione l’idea rieducativa tende per lo più a ricevere adesioni retoriche o di facciata, a fronte di un tendenziale predominio di pulsioni retributive e di istanze di prevenzione generale”. Ma l’autore si chiede anche cosa dobbiamo intendere per rieducazione del condannato. “Gli stessi giudici costituzionali, che pure tendono sempre più a valorizzare il principio in parola si astengono dal fornire al riguardo puntuali definizioni contenutistiche. Ciò non a caso. Quello di rieducazione è infatti un concetto che può essere riempito di vari contenuti: quasi un concetto fai da te, suscettibile di usi differenti a seconda delle lenti e delle finalità con cui lo si approccia, condizionato da presupposti scientifico culturali non meno che da premesse politico-ideologiche”.

Quale sarebbe, ad esempio, la migliore forma di rieducazione per i cosiddetti colletti bianchi che si macchiano di qualche reato? La risposta la troverà chi leggerà il libro, che nel capitolo successivo affronta quello che Fiandaca definisce “il grande paradosso”, ossia “la coesistenza, nell’attuale momento storico, di due tendenze di fondo opposte: da un lato, una contingente deriva punitivista, figlia di un populismo politico che tende appunto a canalizzare in chiave repressivo-ritorsiva sentimenti di rabbia, indignazione, risentimento e frustrazione diffusi nei settori sociali più svantaggiati; dall’altro, un’accresciuta consapevolezza, da parte di molti esperti a vario titolo di questioni penali, che le forme tradizionali di pena forniscono una risposta sempre meno adeguata e soddisfacente in termini sia di giustizia che di efficace contrasto alla criminalità”. Fiandaca poi termina con una polemica: “Incombe in maniera ricorrente il rischio - tanto più concreto quando sono al governo forze politiche di orientamento fortemente repressivo-securitario - di un possibile depotenziamento o ridimensionamento del ruolo dei garanti. Se ciò avvenisse, il nostro Paese regredirebbe ulteriormente quanto a livello di civiltà penitenziaria e, più in generale, di effettiva garanzia dei diritti delle persone in esecuzione di pena”.