di Luigi Manconi
La Repubblica, 6 gennaio 2023
Una delle forme più diffuse di nonviolenza, nella storia e nel mondo, è quella dello sciopero della fame. Si tratta di una pratica adottata da singoli o da gruppi di persone consistente in una volontaria e prolungata astensione dal cibo e, in casi estremi, anche dai liquidi, al fine di raggiungere un obiettivo per il quale si ritiene possibile e utile mettere a repentaglio la propria salute e la propria esistenza. In Italia, dopo le esperienze pionieristiche degli obiettori di coscienza contro il servizio militare, lo sciopero della fame come azione nonviolenta è stata promossa in particolare dai Radicali e da Marco Pannella.
Da qualche decennio, il digiuno è stato adottato anche all’interno del sistema penitenziario da detenuti che intendevano rivendicare i propri diritti attraverso una azione avente come posta in gioco il corpo, il suo macerarsi e il suo decadere. Nelle ultime settimane si è ripreso a parlare di sciopero della fame a partire dalla vicenda di Alfredo Cospito, anarchico recluso al carcere di Bancali, in provincia di Sassari, che rinuncia al cibo ormai da 75 giorni, per protestare contro il regime speciale di 41-bis, cui è sottoposto. È dimagrito di 35 chili, beve solo acqua e ingerisce un po’ di sale e miele. L’azione di Cospito ha riportato alla mente alcune storie passate di persone che, in carcere, sono morte a seguito dello sciopero della fame.
Nel 2009, Sami Mbarka Ben Gargi, dopo 18 giorni di digiuno nell’istituto di Pavia, perde 21 chili e muore in ospedale, in seguito a un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel 2012, Virgil Cristian Pop, di origine bulgara, recluso nel carcere di Lecce, perde la vita dopo 50 giorni di sciopero della fame. Nel 2018, Gabriele Milito, 75enne detenuto a Paola, in Calabria, dopo aver rifiutato il cibo per numerosi giorni, viene ricoverato e muore. Nel 2017, Salvatore Meloni, indipendentista sardo in carcere per reati fiscali politicamente motivati, perde la vita all’interno dell’istituto penitenziario di Uta (Cagliari), dopo 66 giorni di digiuno. Ancora: nel 2020, Carmelo Caminiti, detenuto a Messina, in attesa di giudizio e dopo la revoca degli arresti domiciliari, non assume né cibo né acqua per 60 giorni, fino a morirne.
Se praticare lo sciopero della fame corrisponde all’esercizio di un diritto fondamentale, quello di autodeterminazione, perché libera deve essere la scelta di assumere o di rifiutare il cibo, allo stesso tempo è inevitabile domandarsi se non sia responsabilità irrinunciabile dello Stato la tutela dell’incolumità dei propri cittadini, tanto più se affidati alla sua custodia, come nel caso dei reclusi.
Ne parlo con Rita Bernardini, presidente dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, che ha una lunga esperienza di carcere e di digiuni e che si sta recando nell’istituto di Opera (Milano), dove la sua associazione organizza i laboratori Spes Contra Spem: “Alfredo Cospito sta rischiando veramente tanto. Dopo 75 giorni di astinenza dal cibo, e un dimagrimento eccessivo e così repentino, si mettono in pericolo organi vitali, con il rischio serio di patologie irreversibili. Un punto di non ritorno, tanto più grave perché vissuto nella solitudine del 41-bis, tra quattro gelide mura e sbarre”.
Le posizioni politiche di Cospito non coincidono, va da sé, con quelle dei Radicali e di Rita Bernardini, la quale evidenzia un essenziale motivo di dissenso: “Non è facile confrontare uno sciopero della fame nonviolento alla Pannella, condotto per amore delle istituzioni, affinché facciano ciò che devono per rispettare Stato di diritto e democrazia, con uno sciopero della fame condotto per se stessi e per disperazione, seppure per denunciare la propria condizione di detenzione illegale”. Bernardini sottolinea questo elemento perché - dice - “lo stato d’animo con cui si intraprende il digiuno influisce moltissimo sullo stato fisico. Lo dico per esperienza diretta: dopo i primi giorni in cui il fisico è un po’ sofferente, perché cerca di adattarsi al nuovo regime di privazione del nutrimento quotidiano, con il passare del tempo - diciamo dopo 20 giorni - si raggiunge una condizione psicofisica di benessere, quasi esaltante. I problemi, almeno per me, arrivano dopo i 30 giorni. Ricordo che nel ‘95, dopo 45 giorni di digiuno, dovetti fare un ciclo di due settimane di flebo di ferro. Ancora: “In altri successivi scioperi della fame, mi è capitato di avere una grave infezione al nervo della gamba che mi faceva cadere all’improvviso; e un’altra volta ancora, la più grave, ho avuto un infarto che mi ha portato a un ricovero di tre giorni in terapia intensiva”.
In conclusione, l’azione di Alfredo Cospito, come quella di altri che praticano il digiuno come forma di mobilitazione, pone una domanda cruciale: può lo Stato rimanere inerte di fronte al corpo consumato di una persona che chiede di essere ascoltata? Finora, dall’Amministrazione penitenziaria, non una parola.