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di Mauro Presini*

periscopionline.it, 18 ottobre 2023

Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su 100 persone che hanno scontato una pena in carcere, quasi il 69 per cento tornano a delinquere. Solo il 31 per cento non lo fa. Questo significa una cosa piuttosto semplice: così com’è, il carcere non funziona. Mi si perdoni il paragone rozzo e banale, ma qualsiasi persona, anche la più stolta, se si rendesse conto che un rubinetto della propria abitazione perdesse il 69% dell’acqua, lo sostituirebbe subito. In Italia, invece, questo sistema di trattamento dei rei viene accettato senza troppe considerazioni critiche. Il DAP ogni anno impiega quasi tre miliardi di euro per le sue necessità. Ciò significa che una parte non trascurabile della spesa pubblica italiana finisce in un sistema inefficace, se non controproducente. A ciò si aggiunga un altro dato: in Italia il 90,1% del personale penitenziario è composto da agenti di polizia. Cosa vuol dire tutto questo? Significa che in Italia la cultura carceraria è in larga parte basata sull’aspetto repressivo.

Non è vero che ci sia una carenza di poliziotti penitenziari - nonostante la strumentalizzazione del securitarismo imperante dica il contrario - mentre è evidente la limitata presenza di educatori e di soggetti in grado di svolgere una funzione riabilitativa dei ristretti. Spostiamo la nostra attenzione. Si deve criticare solo il “mal di carcere” o il “carcere in sé”? A mio avviso, sarebbe limitante pensare che la reclusione sia la migliore se non l’unica soluzione possibile per il reo. Si tratta di un discorso delicato, il quale non deve essere affrontato con ingenuità.

Una società priva di elementi sanzionatori non può darsi. Nemmeno l’anarchia fa a meno dei concetti di giustizia e di pena. Nessun’organizzazione sociale può prescindere da una dimensione morale. Nessuna morale può di conseguenza prescindere dalla dicotomia bene/male e da un giudizio sui comportamenti e sulle azioni dei singoli individui e dei gruppi sociali.

La reità è sempre esistita e sempre esisterà. Sono le regole a tenere insieme una società. Per definizione, a esse non si può contravvenire. Regole senza sanzioni sono del tutto inefficaci e insensate. Le regole hanno un senso in quanto servono a tutelare i più deboli. Certo, è innegabile che esse finiscano con il rispettare gli interessi di chi le ha dettate, ma mai nessuno nella storia ha combattuto per un mondo senza regole. Si è sempre combattuto per nuovi ordini sociali, più giusti, più o meno sensibili alle istanze di chi ha meno, ma mai per il caos generalizzato.

Detto questo, però, è abbastanza curioso che l’uomo abbia potuto recarsi sulla luna, possa scindere l’atomo e volare, ma non abbia mai tentato di attuare una forma di recupero dei rei che fosse diversa dalla reclusione. Pensandoci bene, l’uomo è l’unico animale che fa prigionieri, nessun’altra specie ha questa peculiarità. E allora la domanda non può che essere questa: in pieno XXI secolo, ha ancora senso il carcere? Esso, inteso come modalità trattamentale, fin quanto durerà? Un anno, dieci o in eterno? È possibile un suo superamento oppure, in realtà, siamo arrivati al punto massimo raggiungibile nel rapporto tra chi ha commesso un reato e chi si incarica di reinserire nella società queste persone?

Si tratta di un tema sul quale riflettiamo poco o niente. Come qualsiasi altra istituzione totale - si pensi al manicomio - il carcere non serve dunque a chi vi entra. I principali beneficiari della sua invenzione sono i cosiddetti “onesti”. Escludere i cattivi dalla società consente agli onesti di autolegittimarsi la convinzione di essere probi, esattamente come quando lavano il pavimento e tolgono dalla sua superficie la sporcizia, dicendo più o meno in modo esplicito a loro stessi, di essere puliti.

Gli “onesti” non hanno interesse di recuperare. Il loro obiettivo è più limitato: non risolvere la questione, ma estirparne gli effetti. Non comprendere, bensì isolare. I processi individuali e collettivi che si svolgono all’interno delle strutture chiuse sono secondari, in termini di necessità personali, rispetto ai desideri di chi non vi vive.

A livello conscio, un ospedale serve per curare i malati; un cimitero a preservare i cadaveri; un carcere a rieducare e così via. A livello inconscio, invece, le funzioni sono assai meno nobili: un ospedale serve a non farci vedere la sofferenza; un cimitero serve a rimuovere il concetto della morte (della nostra in particolare); un carcere a evitare che la quotidianità degli onesti si inquini con il male. Peccato che la sofferenza, il male e la morte siano elementi costitutivi dell’esistenza umana e che sia inevitabile, prima o poi, trovarsi faccia a faccia con essi.

Il carcere è un luogo in cui la deprivazione è quotidiana. Questo non perché le persone che vi lavorano siano cattive, ma perché il meccanismo dell’istituzione le sovrasta e ne determina i comportamenti. Una persona illuminata, all’interno di un istituto penitenziario, fatica a imporre le proprie convinzioni poiché si incontra con una serie di incrostazioni culturali che ne ostacolano l’azione. Un carcere non priva gli esseri viventi solo dello spazio e della libertà personale. Se si limitasse a questo, tutto sommato esso farebbe poco. Un carcere priva l’uomo della capacità di relazionarsi al prossimo e ne fa emergere gli aspetti peggiori.

È chiaro che un reo, che sia effettivamente tale, ha violato e viola più regole universalmente accettate. Ma se nel recluderlo, lo Stato viola anch’esso i diritti essenziali riconosciuti a tutti gli esseri umani, non si pone sullo stesso piano di coloro i quali si è solito definire delinquenti? Non si delegittima? Non autorizza involontariamente, forme di odio e di accanimento verso di sé? La detenzione è una lunga e lenta lobotomia praticata a un gruppo ampio di “irregolari”. La dignità del recluso è un concetto del tutto teorico, scolpito a lettere maiuscole sulla carta, eppure misteriosamente assente nei corridoi delle sezioni e tra le mura delle celle, le quali oggi, in un trionfo di ipocrisia sono state rinominate in “camere di pernottamento”.

Anche quando il potere costituito concede un diritto, esso ti fa sentire in obbligo e ti dice che ti sta facendo un favore che prima o poi dovrai pagare. La cosa più triste è che chi incarna l’autorità, ritiene che l’abuso sia il modo con cui possa essere normalmente regolata la vita carceraria. Quando un uomo si rende conto di tutto questo, che i suoi discorsi filano ed è conscio di avere qualche ragione, si sentirà veramente perso.

Non so se l’umanità possa fare a meno del carcere. Mi sono più volte posto questo interrogativo, senza tuttavia trovare risposta. Fatta qualche eccezione, sui quasi trenta istituti che ho visitato, queste sono le riflessioni e le percezioni che ho avuto in oltre vent’anni di detenzione. Qualcuno potrà domandarsi legittimamente, come mai un uomo condannato all’ergastolo abbia la sfacciataggine di scrivere tutto ciò.

Non di certo perché la condanna non l’abbia meritata. Ritengo solo che la mia colpevolezza non possa essere motivo di altrettanta nefandezza da parte di chi rappresenta la giustizia. Quando arriverà il momento di andare via, spero di poterlo fare con più leggerezza d’animo e quanto più dignitosamente possibile. Alla fine, forse solo con la morte riusciamo a essere allo stesso livello, solo la morte ci purifica. L’umana condizione scompare dando spazio solo alla natura, laddove siamo tutti lo stesso prodotto.

*Maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero”. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara