di Gigi Riva
L'Espresso, 22 settembre 2019
C'è chi sceglie di non dire ai bambini la verità. Ma pare per gli altri avere un rapporto è molto difficile. Anche per le leggi che restano inapplicate. Marco si ricorderà per tutta la vita il giorno che con il padre simulò una partita di basket. Palleggi, passaggi e tiri in un canestro immaginario. Se lo ricorderà perché aveva dieci anni e da sei non vedeva il genitore.
Il finto campo del suo sport preferito era il cortile della massima sicurezza del carcere di San Gimignano. Raoul, questo il nome dell'uomo, è originario dei Caraibi. La madre di Marco lo aveva conosciuto in vacanza e lui, avvocato nel suo Paese, l'aveva seguita.
La sua laurea in giurisprudenza non era stata riconosciuta in Italia e allora si era arrangiato con i mestieri più umili, spazzino, cameriere, operaio. I soldi non bastavano mai e scelse la via più semplice per arricchirsi: droga. Lo presero subito. D'accordo con la moglie decise di non svelare al figlio di essere in prigione.
Durante le telefonate che gli erano concesse gli raccontava che faceva il pescatore laggiù nei mari dei Tropici e gli descriveva tramonti infuocati, pesci meravigliosi. Non poteva venire a trovarlo, quello no. perché costava troppo. Marco accumulava nel salvadanaio, moneta dopo moneta, il necessario per raggiungerlo.
Ma il volo aereo, a detta della madre, costava molto più di quanti potessero i suoi sforzi. Raoul spiegava alla psicologa del carcere che si sacrificava perché aveva sbagliato ma soffriva per quella scelta di costruirsi un mondo fantastico e tenere al riparo il piccolo. Alla fine si decise al passo della verità e in un 19 marzo luminoso e assolato, festa del papà, finalmente si ritrovarono e giocarono quell'improbabile partita di basket.
Era ripartito un rapporto. Per coprire la vergogna, un altro detenuto ha raccontato al figlio di 8 anni che fa un mestiere con orari così stravaganti da non poter mai essere in casa quando c'è lui. La moglie asseconda facendo trovare sul tavolo tazze di colazione consumata, nella lavatrice vestiti da lavare, nel letto un pigiama maschile. Papà ha sempre molto da fare.
Occultare può sembrare una buona soluzione nell'immediato. È pessima nel tempo lungo perché il non detto obbliga a una vita scissa, con troppi punti di domanda senza una risposta. Talvolta non va meglio quando avviene l'opposto. Daniela aveva 5 anni la notte in cui entrarono i carabinieri in casa e si portarono via il genitore. Quando le fu permessa una visita si scagliò contro la polizia penitenziaria che le aveva "rubato" il genitore.
Né andò meglio le volte successive, crisi di panico, svenimenti alla vista delle sbarre. E l'insorgere di una preoccupante anoressia per la quale si rifiutava di curarsi. Fu il carcerato, durante i colloqui telefonici, a convincerla a rivolgersi a un neuropsichiatra. Ma la svolta che la fece guarire arrivò quando il padre accettò di non presentarsi più come vittima della giustizia e di ammettere le sue colpe. La ragazza ora sta molto meglio.
Tiziana ha invece 4 anni, dolce, affezionata, presente ogni settimana al penitenziario, apparentemente serena. Solo apparentemente. D'improvviso ha preso a piangere e a non volerlo salutare al momento del distacco. Lo abbraccia al collo e comincia a piangere finché la devono congedare con la forza. Scena piuttosto diffusa. E straziante.
Al netto di errori giudiziari, chi sta dentro ha commesso reati. Nel nostro percorso di civiltà si è fortunatamente arrivati a considerare il carcere come un luogo di recupero e non di punizione. Al populismo montante che rinnega questa filosofia al grido di "in galera in galera", "buttiamo via le chiavi", "di cosa si lamentano? Mangiano e dormono a spese nostre", si può opporre che esistono delle leggi, troppo spesso disattese, per favorire l'affettività.
Si invocano problemi strutturali, necessità di tutela della sicurezza. O semplicemente ci si rifiuta di applicare convenzioni pomposamente ratificate per indolenza, incuria, quando non per il solito alibi per cui esistono ben altre emergenze e priorità. E si finisce così per creare una categoria di vittime collaterali, i figli di chi è stato condannato. In spregio alle convenzioni sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza.
In Europa sono 2,1 milioni i minorenni ad avere un genitore in carcere. Centomila in Italia dove la popolazione dei penitenziari è al 95 per cento maschile. Centomila costretti a vivere pressoché in solitudine la loro condizione infelice. Guardati con sospetto nel mondo al di qua delle mura perché "figli di" e spesso ostacolati dalle pastoie burocratiche nel loro legittimo diritto a mantenere un rapporto con una delle persone che hanno per più cara, qualunque delitto abbia commesso.
Come una bambina di sei anni che nella sala colloqui di una casa circondariale ha disegnato su un foglio molti uccelli per sbarrarne poi una parte con delle croci. E alla domanda su cosa significasse ha risposto: "Sono i maschi e sono tutti morti perché tutti i maschi sono scemi o inutili. I papà non ci sono mai". Non ci sono mai. E sono difficili da raggiungere perché nelle carceri italiane nel binomio sicurezza/affettività si privilegia sempre la prima.
Ci sono carcerati arrivati in Italia dopo aver scontato periodi in cattività in Germania o in qualche Paese del Nord Europa che si augurerebbero il biglietto di ritorno, nonostante la distanza dalle famiglie, per la diversa qualità dei pochi incontri. Stanze colorate piene di giochi, addirittura passeggiate nei parchi dei penitenziari.
Cose che da noi avvengono solo in istituti modello e all'avanguardia. Nelle stragrande maggioranza, una seggiola, un vetro divisorio. Il niet alle concessioni più elementari. Un detenuto: "Il compimento del decimo anno di mio figlio è stato vissuto come momento di gioia ma anche con il timore che mi venissero tolte le telefonate aggiuntive.
Questo è avvenuto perché è cambiato il direttore che voleva motivi precisi per la mia richiesta. Il fatto che sono un padre non è stato giudicato sufficiente". Finché il figlio ha meno di dieci anni si può usufruire di sei telefonate al mese della durata di dieci minuti, poi scendono a quattro, salvo concessioni. Dai 40 ai 60 minuti il tempo totale in un mese. Molto meno di quello speso per guardare un film in tv o giocare una partita di calcio dentro le mura.
Aiuterebbe ad avere una relazione, se non normale meno complicata, la sensibilità del variegato panorama istituzionale che ruota attorno alle galere. La figlia di un uomo in permesso premio si è talmente affezionata ai carabinieri della caserma dove si deve presentare per obbligo di firma da volerlo sempre accompagnare. Un'altra scambia tutti gli agenti della polizia penitenziaria per il proprio papà grazie alla loro affabilità.
La mamma le ha spiegato che si va in carcere "a trovare papà" dunque tutte quelle persone gentili sono papà. Al contrario naturalmente non aiutano le piccole vessazioni a cui si è vincolati da un "regolamento" che non opera alcuna distinzione da caso a caso. Perquisizioni umilianti, pesanti cancelli, il rumore delle chiavi che si chiudono alle spalle, la stanza spoglia e disadorna dove incontrarsi. Invece di creare un ambiente giocoso e gioioso.
Ci vorrebbe poco. Per i giustizialisti a tutti i costi probabilmente sarebbe un privilegio inaccettabile. Si può diventare pregiudicati, non si finisce di essere genitori. Gli psicologi e gli operatori del carcere osservano una costante, qualunque sia il grado di pericolosità del soggetto. Photoshop aiuta a fingere una realtà da cui si è naturalmente esclusi. E così il detenuto appare nelle immagini delle ricorrenze importanti, la torta di compleanno, il Natale, la Pasqua.
La costruzione dell'idea di una normalità. Anche quando la normalità non tornerà mai più. Un uomo che ha strangolato la moglie davanti alle sue bambine di 5 e 8 anni esasperato, dice, dai di lei continui insulti, dal carcere scrive lettere piene dimore per le figlie e si arrabbia per l'immancabile mancata risposta. Un mafioso pluriergastolano di pochissime parole cominciò ad aprirsi con la sua psicologa confidandole che aveva un figlio ma che era morto.
In quali circostanze? Dopo un lungo silenzio spiegò che era molto affezionato a quel ragazzo ma per lui era come morto perché si vestiva da donna. Dunque rifiutava di accettare la sua richiesta di colloquio. Non lo voleva più vedere. Solo dopo un lungo percorso accettò l'idea che agendo così era come se lo uccidesse lui stesso. Hanno ripreso alfine a frequentarsi. proprio nel periodo dell'arresto, un calabrese ha perso l'unico figlio.
Ha voluto però dare alla moglie la possibilità di essere madre attraverso la fecondazione artificiale, una scelta ormai sempre più frequente data l'impossibilità di avere rapporti come avviene in nazioni più evolute. E già sembra di sentire l'eco di un'obiezione: ma come, vogliono persino fare sesso? Comunque il bambino che è nato ora ha tre anni.
Il padre lo ha sempre visto solo dietro le sbarre. In generale i detenuti tendono a separare nettamente la loro famiglia criminale dalla loro famiglia affettiva. In molti si vantano di "non litigare mai con i figli quando vengono al colloquio".
Esasperando, a detta degli esperti, la percezione di eccezionalità di quella situazione. Quando sarebbe invece più corretto che il rapporto fosse basato il più possibile sulla verità per conservare il proprio ruolo genitoriale. Non è facile, ma quando succede si possono leggere lettere come quella scritta da Giacomo a suo padre con cui, nonostante le mura della prigione, è riuscito ad avere una relazione matura: "Ho fatto due conti con la calcolatrice della Benedetta e ho scoperto che uscirai il giorno prima che io compia 18 anni.
Quel giorno saranno 13 anni che sei sparito da casa, ma almeno diventerò grande - come dicono i miei amici - sentendo la tua voce che mi dirà "buon compleanno Giacomo". Me lo dirai guardandomi negli occhi e non per telefono come in questi ultimi anni.
La mia vita sarà segnata per sempre dalla tua storia. Quando diventerò grande potrò dire di avere imparato presto che le bugie hanno le gambe corte e che è meglio essere poveri ma dormire piuttosto che viaggiare su una barca e provare paura quando suona il campanello all'alba. Io e Benedetta siamo ancora qui che ti aspettiamo perché la mamma ci ha sempre detto: "papà un giorno avrà bisogno di voi". E quando tu avrai bisogno, papà, sappi che noi ci saremo sempre".
(Le storie di questo articolo sono naturalmente tutte vere. Altrettanto naturalmente, per tutelare i minori, i nomi sono inventati).