recensione di Francesco Lo Piccolo*
huffingtonpost.it, 21 settembre 2019
È uscito in questi giorni "Prigionieri" (Contrasto editore), nuovo libro di Valerio Bispuri, racconto fotografico incentrato sulla libertà perduta e che si aggiunge a "Encerrados" reportage realizzato nelle carceri sudamericane e a "Paco" sulla cocaina dei poveri che sta facendo stragi di giovani nei sobborghi delle grandi città sudamericane.
Con questo "Prigionieri", con i suoi 108 scatti in bianco e nero, Valerio Bispuri ci porta dentro Poggioreale, Rebibbia, San Vittore, l'Ucciardone, la Giudecca e in altri istituti di pena e ci fa incontrare la popolazione detenuta, donne e uomini, soprattutto uomini. "Non un lavoro di denuncia - precisa il fotografo - il mio è un lavoro antropologico, per capire chi sono e come si vive privati della libertà". Un lavoro che è stato compiuto in circa tre anni e mezzo di visite in carcere, a stretto contatto con i detenuti, pranzando con loro nelle celle, ascoltando i loro racconti, condividendo pianti e risate, e che è culminato con la pubblicazione del libro e con un'anteprima al festival di fotogiornalismo "Visa Pour l'Image" di Perpignan, in Francia.
Mi sono procurato il libro, l'ho sfogliato con cura, approfitto del lavoro di Valerio Bispuri per provare a interpretare queste immagini o meglio per dire quello che mi suggeriscono questi corpi in questi luoghi. Scontato che mostrano il classico cliché del criminale (che mi piace poco) non aggiungendo nulla a ciò che da sempre, da Lombroso in poi potrei dire, ci propinano in modo superficiale e di parte certo cinema, certa stampa e tanti format televisivi con criminologi buca-schermo, dandoci l'illusione di essere al riparo dal brutto ceffo, precisato cioè questo, va dato comunque merito che in questi scatti emerge la sofferenza dei corpi, il loro essere corpi di persone dimenticate, emarginate, lasciate andare alla deriva come scarti, rifiuti non riciclabili.
Certo, sia ben chiaro, non tutta la popolazione carceraria è quella che si vede in questi scatti, non tutti sono così come appaiono qui nelle foto di Valerio Bispuri, non tutti interpretano alla perfezione lo stereotipo del pericoloso deviante che disegna nel corpo e con il corpo i segni della guerra, ma tutti - e oggi sono oltre sessantamila ripartiti in 200 istituti - vivono giorno e notte in spazi fatiscenti, dove il gabinetto è accanto al lavandino che serve per lavare i piatti, per lavare la verdura, ma anche per lavarsi i capelli; dove in uno spazio che è grande come una normalissima camera da letto di una qualunque casa sono costretti a vivere in letti a castello quattro, sei, anche otto persone, dove uno legge, mentre l'altro dorme, l'altro guarda la Tv, l'altro sta disteso a dormire, un altro scrive una lettera.
Perché altro è molto difficile poter fare: nel 2018 ai corsi professionali in carcere hanno partecipato 1.757 detenuti, nelle lavorazioni (pulizia, porta-vitto, spesino eccetera) poco più di 15 mila impiegati a rotazione ogni tre mesi per poche ore al giorno. Davvero ben poco da fare in questo enorme e diffuso degrado strutturale fatto di muri scrostati, umidi e sporchi, spesso in compagnia dei topi, in una desolazione che nulla ha a che vedere con il rispetto della dignità umana. In spazi disumani che nulla hanno a che vedere con il fine della risocializzazione prescritto dalla nostra Costituzione. E nei quali regna oltre che la sofferenza la solitudine. Il vuoto assoluto.
Guardate bene queste foto, andate oltre a quello che già vi hanno fatto vedere tanti altri in tante altre scene di malavita, e soffermatevi a guardare le aree dei passeggi, questi cubi di cemento ai quali è stato tolto il tetto, guardate "i prigionieri" mentre guardano il nulla, mentre giocano a pallone da soli, mentre scolpiscono i muscoli, mentre mantengono in vita le loro braccia e le loro spalle per difesa e per offesa, per aggrapparsi a quell'unica cosa che hanno: il loro corpo.
Corpo di classe, classe subalterna, la classe preferita e verso la quale è tutto orientato/disorientato il diritto penale e lo stesso sistema penitenziario. (I dati ce lo dicono da tempo: gran parte dei detenuti hanno determinate e sempre le stesse origini territoriali ed estrazioni sociali).
Guardate al di là della foto e dentro le foto di Bispuri: scoprirete che in questi luoghi abitati da questi corpi manca soprattutto lo Stato, quello Stato che deve garantire il lavoro e la pari dignità sociale, che deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che promuove lo sviluppo della cultura, che non considera nessuno colpevole fino alla condanna definitiva. Quello Stato che deve tendere alla rieducazione del condannato. Ecco, questo in carcere, nonostante la volontà, le raccomandazioni e gli intenti è solo una parola vuota.
Prima di scrivere questi miei pensieri ho chiamato al telefono e ho parlato con Valerio Bispuri. È stato uno scambio di idee utile, una chiacchierata che ha confermato le mie posizioni per lavorare per fare a meno del carcere:
"Con le mie fotografie - mi ha detto il fotografo di "Prigionieri" - ho voluto raccontare gli invisibili, le persone prive di libertà e con questa parola intendo non solo la libertà fisica. Ho capito che in carcere o ci si abitua o ci si deprime. Le carceri sono lo specchio della società di un Paese, dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali. Mi sono accorto come il sistema penitenziario italiano ha problemi di sovraffollamento, disoccupazione per i detenuti e strutture precarie.
Negli ultimi anni c'è stato un lento miglioramento in alcuni carceri, ma la condizione dei detenuti resta sempre di estrema difficoltà e isolamento. In questi non-luoghi, le persone private della libertà cercano di ricostruire abitudini, affetti e trovare un'alternativa per il futuro che spesso non esiste. Non c'è alcuno sforzo da parte dello Stato di aiutare al reinserimento di chi esce dal carcere dopo anni di detenzione. Sono così moltissimi i detenuti che tornano dopo breve tempo in prigione".
Concludo con una mia piccola considerazione: corpi così (persi, abbruttiti, sfiniti, soprattutto corpi strappati a opera di un diritto di parte) oggi non serve andare a cercarli in carcere perché li possiamo trovare ovunque, purtroppo: nelle stazioni, sopra i cartoni nei sottopassi delle metropolitane, nei parchi mentre spacciano o si infilano un ago nel braccio, nelle nostre grandi città diventate centri senza scopo e senza bussola, nelle periferie, nei quartieri abbandonati, nel punto più basso della piramide sociale e dove c'è scarsissimo livello di istruzione, poca o nessuna esperienza lavorativa, dove si resta in vita solo grazie al lavoro nella terra della devianza, nel mondo illegale-criminale.
Ideali e perfette aree di preparazione per soggetti adatti al prossimo internamento. A meno che non ci sia finalmente e nell'interesse di tutti un progetto di cambiamento per una società migliore, soprattutto una società non diseguale.
*Giornalista, direttore di "Voci di dentro"