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di Donatella Stasio

La Stampa, 18 settembre 2023

L’approccio del governo è emergenziale e securitario, non basta a risolvere il problema. Bisogna riavvicinare le periferie, costruire un senso di appartenenza a una comunità di valori. In uno degli episodi di Mare fuori, la bella serie televisiva sui ragazzi reclusi nell’Istituto penale minorile (Ipm) di Napoli, Edoardo rischia di essere trasferito, per punizione, nel carcere per adulti di Poggioreale. Ormai è maggiorenne e, anche se per legge potrebbe restare nell’Ipm fino a 25 anni, il comandante e la direttrice vogliono chiederne al giudice il trasferimento per la sua ostinata refrattarietà al circuito minorile. Una decisione dolorosa: tutti sanno che a Poggioreale potrebbe essere ucciso dal clan nemico della sua famiglia, che gliel’ha giurata. Perciò Edoardo scappa, pur di non morire in quella galera. Dalla fiction alla realtà: Ciro ha 21 anni ed è recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Non si capisce bene come sia finito fra gli adulti. Al magistrato di sorveglianza dice di non sapere che sarebbe potuto andare all’Ipm di Nisida, almeno fino a 25 anni, certo più “accogliente” ma anche più impegnativo per chi, invece, vuole farsi la galera e basta, meglio se inzeppata di mafia locale. A Santa Maria, Ciro si sente in famiglia, adulto tra gli adulti. Lì però si cementerà il suo legame con la camorra da cui non uscirà più.

Fiction o realtà, quelle di Edoardo e di Ciro sono due storie emblematiche di che cosa può significare, per un ragazzo appena maggiorenne, essere trasferito nelle patrie galere degli adulti invece che stare in quelle per i minori. Anche di questo si occupa il “decreto Caivano” (non ancora pubblicato in Gazzetta), in una versione “bonificata”, su questo punto, ad opera del guardasigilli Carlo Nordio rispetto a quella, monstre, proposta e rilanciata dalle anime securitarie della maggioranza. Che avrebbero voluto, allo scoccare dei 18 anni di questi ragazzi e in modo automatico, il loro trasferimento “punitivo” nelle carceri “ordinarie”, senza alcuna valutazione né del direttore né del giudice. Nordio ha mediato per cancellare almeno quell’incivile automatismo, per subordinare il trasferimento a tre condizioni concorrenti (se il ragazzo compromette la sicurezza e l’ordine dell’istituto, impedisce l’attività degli altri, minaccia, usa violenza e intimidisce) e per consentirlo solo dopo i 21 anni. Quest’ultima modifica, però, non è passata, almeno non nel testo illustrato da Nordio in conferenza stampa. Il danno rimane, anche se limitato.

La faciloneria con cui il trasferimento punitivo automatico a 18 anni era stato proposto è la conferma - se ce ne fosse bisogno, viste le altre misure del decreto Caivano e di altri decreti, passati e annunciati - dell’approccio emergenziale, securitario e demagogico alle situazioni complesse. Sono tantissime le periferie d’Italia in cui la Repubblica si è dissolta. Periferie urbane e culturali. Stupri e violenze sulle donne non abitano solo al Sud ma sono un fenomeno trasversale geograficamente, urbanisticamente e socialmente, che affonda le radici, fra l’altro, in una cultura patriarcale mai definitivamente estirpata e, anzi, in qualche modo giustificata dalle destre (si pensi all’ostentato ostruzionismo ideologico alla piena attuazione della sentenza della Consulta sul doppio cognome dei figli). Non esiste, quindi, un’emergenza Caivano. Esiste un rischio democratico sotto gli occhi di tutti, che è sbagliato ricondurre alla questione criminale o minorile o all’invasione dei migranti invece che al dissolvimento della Repubblica. Perciò le Caivano d’Italia non si aiutano con logiche congiunturali, squilli di tromba, aumenti di pena, e magari qualche spicciolo (meglio di niente, ma sempre spiccioli sono). Occorre un lungo e paziente lavoro di rammendo, per riavvicinare quelle periferie, urbanistiche e culturali, ai migliori valori della nostra Repubblica. Che non sono la “difesa di Dio”, della famiglia “tradizionale”, della galera per tutti, della Patria che respinge i migranti, ma quelli scritti nella Costituzione, uguaglianza, dignità, rispetto, solidarietà, pluralismo, istruzione, lavoro, salute. Ispirare l’azione di governo, in concreto, a questi principi consente di riempire il vuoto, di ritrovare fiducia e di costruire un senso di appartenenza, non a un partito politico, ma a una comunità di valori.

È un lavoro di “cura”, anzitutto, parola che forse meglio di altre sintetizza il compito della Repubblica, con tutte le sue istituzioni, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3 della Costituzione) e quello di “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (articolo 2). Eppure, nel favoloso mondo - questo sì “al contrario” - della destra di governo, chi richiama i principi costituzionali viene tacciato di opposizione politica, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Spesso il governo Meloni rivendica di avere davanti a sé una prospettiva lunga, altri quattro anni, e poi ancora cinque, assicura la premier, convinta di vincere le prossime elezioni. Non solo: rivendica di essere un governo politico e omogeneo, al di là delle differenze (di cui si fa sfoggio solo alla vigilia di competizioni elettorali come le Europee del 2024). Ma se così è, se davvero abbiamo davanti una maggioranza politicamente coesa e duratura, allora è imperdonabile l’approccio emergenziale a ogni curva della nostra vita, l’incapacità di seminare oggi per raccogliere i frutti domani. Un lusso che i governi precedenti - al di là delle specifiche responsabilità - non potevano permettersi essendo governi “promiscui”, “tecnici”, “strani”, come sono stati definiti per descrivere le diverse anime che certo non hanno giovato né alla loro durata né alla coerenza delle riforme.

Questa maggioranza invece non ha alibi. Se ha l’opportunità di governare a lungo, ha il dovere di seminare non misure spot ma strutturali, sempre nel rispetto della Costituzione. Eppure, continua a muoversi con il respiro corto, usando l’emergenza come moneta di scambio del consenso popolare, barricata nel suo recinto identitario. Dice molto l’enfatico discorso di Meloni, giovedì scorso a Budapest di fronte al suo amico Vicktor Orbàn, sulla “difesa di Dio” e della famiglia “tradizionale”, descritta ostinatamente, quasi provocatoriamente, in modo diverso dalla famiglia ormai riconosciuta dalla Costituzione e da chi ne è la viva voce, la Corte Costituzionale, di fatto inascoltata, quasi fosse un accidente, un fastidio da ignorare o zittire, non una fondamentale istituzione della Repubblica con cui si ha il dovere di collaborare lealmente per far progredire il Paese. A meno che la destra di governo non voglia emulare Orbàn, che si è messo sotto i piedi la Corte costituzionale, assumendone il controllo. Ma non vogliamo neanche pensare a una simile ipotesi.

L’anno scorso, a Napoli, l’attuale Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, che per anni ha guidato la procura del capoluogo campano dove si è appena insediato Nicola Gratteri, disse che “siamo abituati a non considerare il peso devastante di cose ritenute normalmente lontane dalle questioni criminali, come l’urbanistica. Le scelte urbanistiche fatte a Napoli - spiegò - sono una delle cause più significative della questione criminale e della devianza giovanile”. Raccontò dei ragazzi di Secondigliano, una volta città orgogliosa e oggi area cittadina degradata e costretta al silenzio da un potente cartello mafioso: se a quelli che vanno a studiare o a lavorare nel centro di Napoli si chiede dove abitano, loro rispondono con una bugia, per evitare di essere discriminati. “Cosa c’è di più lontano di questo dalla promessa di uguaglianza scritta nel patto costituzionale?”, chiese Melillo. E a ragione, perché quella promessa - poterci trattare da uguali - può essere mantenuta solo se si ricostruisce il “clima” da cui è nata la Costituzione e sul quale scommisero i costituenti. Lo spiegò bene Giuliano Amato proprio ai ragazzi reclusi nell’Ipm di Nisida, che protestavano perché “non è vero che siamo tutti uguali”. Per costruire quel clima, non bisogna cavalcare né l’odio né la paura né l’esclusione ma coltivare il rispetto, anzitutto dei valori su cui è nata la Costituzione antifascista, non certo di quelli che una maggioranza politica, pur legittimamente eletta, vorrebbe arbitrariamente e surrettiziamente sostituire ad essi.