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di Paola Balducci

Il Dubbio, 31 gennaio 2024

È possibile porre rimedio a una condanna ingiusta? Come dimostrare la propria innocenza anche a seguito di una condanna espiata, nel caso in cui sia stato commesso un errore giudiziario nei propri confronti? Nel caso di Beniamino Zuncheddu, ci sono voluti 33 anni di carcere fra Badu e Carros, Buoncammino e Uta, una condanna all’ergastolo e un processo di revisione per essere finalmente assolto da un’accusa di strage, per fatti risalenti al 1991. Si chiude così, con una pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto, una vicenda che probabilmente passerà alla storia come uno dei più grandi errori giudiziari della storia processuale italiana e che però non restituirà a un uomo più di metà della sua vita passata in cella.

Zuncheddu era stato ritenuto l’unico responsabile dell’uccisione di tre persone nella cosiddetta “strage del Sinnai”, avvenuta l’8 gennaio del 1991 in Sardegna, a danno di tre pastori. L’impianto accusatorio, con buona pace dello standard probatorio “oltre ogni ragionevole dubbio”, si era retto in prima battuta sulla tesi di presunti dissidi tra gli allevatori della zona. Tuttavia la prova regina, ritenuta decisiva ai fini della colpevolezza di Zuncheddu, è stata la testimonianza di un sopravvissuto all’agguato, che inizialmente affermò di non aver riconosciuto l’aggressore, per poi cambiare versione e indicare Zuncheddu come unico autore degli omicidi. Testimonianza, come si è scoperto a seguito di un’intercettazione telefonica, a sua volta condizionata ampiamente in fase di indagini preliminari da un poliziotto, che avrebbe mostrato al teste ancor prima dell’interrogatorio una foto di Zuncheddu, presentandolo come colpevole. Una pista ipotetica e una testimonianza “condizionata”: è bastato solo questo per far passare a un uomo più della metà della sua vita in carcere.

Zuncheddu si è sempre dichiarato innocente, distaccandosi da un fatto che ha sempre affermato di non aver commesso e così non accedendo ad alcun beneficio penitenziario. Nel nostro ordinamento, difatti, al fine di poter beneficiare di tali istituti, è necessaria molto spesso una revisione critica del fatto commesso, un ravvedimento quanto più sicuro possibile sulla propria condotta.

La stessa ratio guida uno degli istituti più controversi del nostro sistema, l’ergastolo ostativo, che vieta la concessione di benefici al condannato per determinati reati che non collabori con la giustizia. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema, sollevando non pochi dubbi sulla costituzionalità dell’art. 4- bis e invitando costantemente il legislatore a modificarla, così come avvenuto nel 2022. Ma come può, quindi, adempiere al programma rieducativo e dunque ottenere i relativi benefici penitenziari, un individuo condannato che sa di essere innocente, di non aver commesso un fatto, di non poter collaborare in quanto totalmente estraneo al reato a lui ascritto?

In questo caso il processo di revisione, definito come mezzo di impugnazione straordinario, può porsi come valido alleato al fine di provare ancora, anche dopo una condanna, la propria innocenza. Tuttavia, per la sua natura rescissoria di un giudicato già formatosi, si presenta come un istituto utilizzato in un numero molto limitato di casi, solo in presenza di argomenti talmente forti e decisivi da sovvertire una decisione di colpevolezza. Ed è la stessa Carta Costituzionale, all’art. 24, ad ammettere la possibilità infausta di incorrere in un errore giudiziario, affermando che “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. La revisione si pone dunque come una clausola di salvezza nel nostro ordinamento, che prevede inoltre il diritto a una riparazione commisurata alla durata della pena espiata nonché alle conseguenze personali e familiari che ne sono derivate.

A questo punto la domanda che sorge spontanea è solo una: quale risarcimento potrà mai ridare a Beniamino 33 anni della sua vita? Quale commisurazione potrà mai considerarsi equa per riparare all’errore giudiziario commesso?

Certo è che la revisione può rappresentare la fine di un incubo per tantissime vittime di errori giudiziari, vittime talvolta di una giustizia superficiale, che non merita di essere chiamata tale. Se dopo tre gradi di giudizio, come previsto dal nostro ordinamento, è ancora possibile provare la propria innocenza, riavere la propria vita, cercare di recuperare ciò che si è perso, lo dobbiamo a un legislatore che ha permesso di porre rimedio alle ingiustizie processuali, che non sono così poche come si potrebbe pensare: secondo le statistiche raccolte, dal 1991 al 2022 in Italia ci sono stati 222 casi di errori giudiziari, di cui 8 soltanto nel 2022.

Il caso di Zuncheddu ci deve portare a riflettere su questo: le condanne penali, soprattutto di questo genere, portano a delle conseguenze totalizzanti e drammatiche sulla vita delle persone. Ma soprattutto, occorrerebbe non far discendere automaticamente dalla costante dichiarazione di innocenza del condannato una presunzione di adesione al fatto criminoso o una mancanza di collaborazione con la giustizia. Si spera che Zuncheddu possa essere l’ultima vittima di un errore giudiziario di tale entità, ma allo stesso tempo, non possiamo che sperare che la sua vicenda possa aprire la strada a un utilizzo consapevole e coerente dello strumento della revisione: non antagonista, ma alleata della giustizia, permettendole di correggere il tiro e di dare nuova vita a chiunque ne sia stato ingiustamente privato.