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di Giovanni Verde

Corriere del Mezzogiorno, 11 agosto 2023

Gli elettori hanno condiviso l’idea che l’esercizio dell’azione penale oggi crea problemi. La soluzione tecnica di questi problemi, tuttavia, comporta scelte, che restano affidate alla responsabilità degli eletti, i quali non si possono fare scudo di una presunta ed inesistente volontà degli elettori. In tema di giustizia ciò è tanto più vero, in quanto le scelte non devono essere imposte, ma condivise, perché la giustizia è “un bene comune”.

Sono costretto, per brevità, a banalizzare. Nei Paesi anglosassoni il principio della separazione tra i poteri dello Stato è inteso in maniera non rigida. L’empirismo che permea quella cultura li porta a pensare a una circolarità del potere, che si esprime in forme da tenere insieme in maniera coordinata: tra legge, provvedimento e sentenza corre una sorta di filo continuo, che consente di miscelare una sufficiente diversità, per cui essi sono atti che più che costituire esercizio di tre poteri autonomi e distinti, finiscono con l’essere forme autonome e distinte di esercizio del potere.

È in questo contesto che vanno inseriti la figura del “prosecutor”, organo del potere esecutivo, e il processo accusatorio, nel quale il giudice è semplice arbitro cui si riconosce un limitato controllo sul “prosecutor”, in quanto organo esecutivo. La stessa idea dell’autonomia o dell’indipendenza del giudice (e del “prosecutor”) è diversa da quella coltivata da noi, essendo soprattutto legata alla singola persona e alla sua responsabilità (di un Csm non si avverte il bisogno). Quanto di ciò possiamo trapiantare nel nostro sistema?

Da noi la tripartizione dei poteri è rigida; legge, provvedimento e sentenza hanno diversa natura; autonomia e indipendenza devono essere strutturali e non affidate al senso di responsabilità del singolo. Se caliamo le soluzioni proprie del mondo anglosassone nel nostro mondo, dobbiamo chiederci quali sarebbero le conseguenze se modificassimo la Costituzione, inserendo il pubblico ministero tra gli organi del potere esecutivo. Gli dovremmo riconoscere la stessa indipendenza e autonomia di cui godono oggi, o sarebbe sufficiente l’indipendenza e l’autonomia che oggi si riconosce, ad esempio, agli organi di polizia?

Nel dibattito in sede costituente ci si preoccupò che il pm, nell’esercitare l’azione penale, non fosse condizionabile. E fu naturale inserirlo nell’unico corpo della magistratura e renderlo portatore di un obbligo, quale si disse essere l’esercizio dell’azione penale. Si costruì un ibrido, quasi che abbia il corpo dell’indagatore e la testa del giudice, che bene si inseriva nel processo penale dell’epoca, di tipo inquisitorio, che dava prevalenza alle esigenze di sicurezza della società a scapito dei diritti dell’imputato.

Abbiamo riscritto le norme sul processo penale. Ma le abbiamo riscritte con la nostra sensibilità, di cui la Corte costituzionale più volte si è resa interprete, perché non sappiamo fare a meno di subordinare i diritti del singolo alle esigenze di sicurezza. Lasciamo da parte il processo: senza essere farisaici, se un’intercettazione illegittima ci fornisse la prova di reato, sapremmo considerare che la prova non esiste?

È di ieri la notizia che la Corte di cassazione ha posto alcuni limiti alla possibilità di utilizzare le intercettazioni. Subito si sono levate le preoccupazioni che in tal modo si rende più difficile la lotta alla criminalità. Mettiamocelo in testa: il processo genuinamente accusatorio è un processo che si adatta a delitti, la cui fattispecie è elementare e poco circostanziata perché deve essere percepita da una giuria di persone non tecniche (non so se il giurista o il giudice anglosassone ci capirebbe se gli parlassimo di concorso esterno); in cui le parti sono poche e limitate all’accusato e all’accusatore (senza le parti civili); in cui la sentenza normalmente non è impugnabile per ragioni di merito.

È un processo che non ha la sicurezza sociale tra i suoi obiettivi principali; che non ha bisogno di giudici eroi da celebrare. Per noi, che vogliamo coniugare i diritti con le esigenze di sicurezza sociale, il processo accusatorio è un ibrido anch’esso, inevitabilmente. Una serena discussione deve, perciò, partire dalla constatazione che il modello inquisitorio e il modello accusatorio di processo non esistono nella “natura delle cose”, sono modelli tendenziali cui è possibile apportare molte varianti (il ministro e gli avvocati penalisti dovrebbero farsene una ragione e i secondi mettere da parte la pretesa di un processo accusatorio quando difendono l’imputato e inquisitorio quando difendono la parte offesa). Prima di modificare la Costituzione, sarebbe perciò necessario chiedere al popolo se condivide l’idea di un processo che dà valore prevalente alla tutela dell’imputato anche a rischio della sicurezza sociale.

Se la volontà del popolo fosse nel senso che va dato rilievo alla sicurezza sociale, bisognerebbe abbandonare l’idea che si possa introdurre nel nostro sistema un processo accusatorio puro e bisognerebbe convenire su soluzioni inevitabilmente ibride, quali, forse inavvertitamente, i Costituenti prescelsero.

Ho il sospetto che essi paventavano che il pm, inserito nel potere esecutivo, avrebbe potuto essere in qualche modo condizionato dal governo qualora non gli fosse assicurata l’assoluta autonomia, oltremodo pericolosa quando si esercita un potere necessariamente discrezionale (quale è il potere d’indagine), ma al tempo stesso permanente e non soggetto a controlli. È questa la ragione per la quale da tempo sostengo che la soluzione delle attuali criticità non va ricercata nella separazione delle carriere, ma in una legge ordinaria che definisca lo “status” del pm in funzione della sua attività, che è ben diversa da quella del giudice.