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di Alessandro Barbano

Il Riformista, 4 aprile 2024

Il teatrino del procuratore che attacca il governo. “Io non condivido la grandissima maggioranza delle cose che ha detto Berlusconi, però Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta, che ai magistrati bisognerebbe fare i test psicoattitudinali”: Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, cinque anni fa non aveva dubbi. Quello dei magistrati - raccontava a Massimo Giannini, che lo intervistava da Radio Capital - “è un lavoro molto logorante: ogni cinque anni in modo anonimo ci dovrebbero sottoporre ai test”.

Cinque anni dopo, però, non la pensa proprio allo stesso modo: “Sono contrario se è limitato ai magistrati - dice ai microfoni del Tg1 -, se serve per avere una maggiore sicurezza ed efficienza, allora facciamolo per tutti i vertici della pubblica amministrazione, anche per chi fa politica. E facciamo anche i narcotest, perché una persona sotto l’effetto di stupefacenti può fare ragionamenti sbagliati o può essere ricattato se, ad esempio, viene o è stato fotografato vicino alla cocaina”.

Il gioco delle parti - Che cosa direbbe un test psicoattitudinale sull’equilibrio di un magistrato che si esprime in maniera così dissonante sullo stesso tema? Prima sostenendone la necessità imprescindibile, in ragione dello stress professionale, poi rispedendo i test al mittente politico con una provocazione sarcastica. Il non detto di questo teatrino è il gioco delle parti che si è instaurato tra il potente procuratore di Napoli e il governo, con una complicità sotterranea che non può sfuggire. Perché il conflitto offre a Gratteri l’occasione di intestarsi una leadership della categoria, scavalcando la stessa associazione nazionale dei magistrati, e al guardasigilli Carlo Nordio, che lo legittima rispondendogli, di dimostrare che questo governo non teme il ricatto della corporazione delle toghe.

L’irrilevanza dei test - In realtà c’è un non detto, che Giandomenico Caiazza ha già avuto modo di segnalare su queste colonne. I test, in quanto controllo formale all’accesso, sono del tutto irrilevanti rispetto all’obiettivo di guarire una giustizia malata. Ma sono anche uno specchietto per le allodole per coprire la totale inazione riformatrice sulla vera patologia del sistema magistratuale. Che riguarda la totale assenza di una qualche forma di responsabilità. Quelle civile è esclusa dal nostro sistema. Quella disciplinare si rivela quasi sempre una farsa nelle mani di un Csm corporativo. Quella professionale, cioè legata al merito e alla fondatezza dei provvedimenti adottati da pm e giudici, era stata prescritta dalla riforma Cartabia, e al nuovo governo toccava di definirne l’attuazione. Ma, sotto la pressione della magistratura associata, il governo l’ha svuotata di significato, sostituendo alla valutazione di “tutti i provvedimenti” quella di “provvedimenti a campione”.

Ciò non impedirà a un magistrato di scalare i vertici della carriera anche se ha collezionato una catena di flop giudiziari, che magari sono costati a tanti cittadini innocenti anni di processi dolorosi o di carcere. E non impedirà poi che, forte di questi “successi professionali”, quel magistrato possa arringare la folla mediatica sfidando i governanti a sottoporsi al narcotest. È il tic della Repubblica giudiziaria.